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-Servizi d'investimento e conflitti d'interesse(RAZZANTE)

Servizi di investimento e conflitti di interesse

tra lex specialis e norme civilistiche:

un tentativo di ricostruzione della disciplina applicabile

di Ranieri Razzante – docente di Diritto dei Mercati Finanziari, membro Comitato Scientifico AGEIE, coordinatore della Rubrica “diritto ed economia dei mercati finanziari” su www.covalori.net

1.                   Premessa

2.                   Un’ipotesi di “plurioffensività” di condotte nelle gestioni patrimoniali

3.                   Natura e limiti del conflitto di interessi: l’insufficienza di una ricostruzione dommatica

4.                   L’utilizzo di strumenti “anti-conflitto”: prevenzione o repressione?

1. Premessa

 

Mai così attuale, questo argomento, e mai sufficienti (sembrano) le ricostruzioni ed impostazioni giurisprudenziali e scientifiche che, almeno sino ad oggi, si è tentato di proporre, non solo nel nostro Paese, del fenomeno del “conflitto di interessi” nell’espletamento, da parte di intermediari finanziari, di servizi di investimento (e, segnatamente, di quello di gestione patrimoniale).

La sentenza [1] in rassegna affronta un caso paradigmatico, punta di quell’iceberg che sta emergendo con inusitata imponenza e con una forza d’urto che, nel nostro Paese, era stata indubbiamente sottovalutata non tanto dal legislatore, come si tenterà di dimostrare in appresso, quanto dalle Autorità di vigilanza sul risparmio e sul mercato finanziario.

Si potrebbe a lungo indugiare, ma non si ritiene sia questa la sede, sulle tendenze della financial industry italiana ed europea, sul più efficace modello possibile di vigilanza sulla medesima, sull’assetto ottimale di un sistema di controlli per gli intermediari, sulla centralità della “tutela del risparmiatore” quale bene giuridico tutelato che superiorem non recognoscens nel nostro come in altri ordinamenti continentali e d’oltreoceano.

Ma tanta, più autorevole dottrina, ha già avuto modo di esaminare, sia in ottica giuscommercialistica che economico-aziendale, queste “macro-problematiche”, giungendo a conclusioni per lo più condivisibili.

Tanto ancora si deve fare, ad avviso di chi scrive, in termini “micro”, ossia di individuazione di concetti, metodi e strumenti atti a prevenire e, se del caso, “curare” con i giusti rimedi il verificarsi di conflitti di interessi, di inosservanza di norme a presidio della correttezza e trasparenza nelle relazioni intermediari-clienti, astraendosi – in quest’ultimo caso – dal (falso) problema del cliente “consumatore” distinto da quello che opera per scopi professionali o imprenditoriali.

La disciplina europea e italiana sui servizi di investimento, è forse utile rammentarlo, sono trasversali; esse intendono tutelare il bene “risparmio” in sé, gli investimenti, la stabilità degli intermediari e dei sistemi in cui essi operano [2].

Le cronache recenti testimoniano che l’approccio semplicistico in base al quale si controlla un emittente e, più in generale, un attore del mercato finanziario - in maniera cioè “burocratica”, facendo prevalere la forma sulla sostanza, applicando metodologie di controllo di tipo quasi “deterministico” e avulse dal contesto sia macroeconomico che (ci si passi il neologismo) “macrogiuridico” di riferimento - non porta altro che ad avvitamenti su sé stessi dei medesimi controlli, che non sortiscono l’effetto (preventivo) sperato e vanificano il loro stesso scopo ultimo (la tutela del risparmiatore).

Ci dedicheremo, allora, alla pronunzia del tribunale adìto nella vicenda in commento, di per sé stessa pregna di significati e spunti che ci auguriamo poi di sistematizzare nei paragrafi che seguono.

2. Un’ipotesi di “plurioffensività” di condotte nelle gestioni patrimoniali.

 

Nel caso di specie, l’attrice conviene in giudizio la Banca alla quale aveva affidato in   gestione dei BTP e delle somme di denaro. Essa sostiene che l’Istituto di credito, contrariamente al mandato ricevuto (di acquistare, cioè, titoli obbligazionari e limitarsi ad amministrare i BTP in deposito), ha venduto pochi giorni dopo parte dei BTP per acquistare, in contropartita diretta, quote di fondi comuni del gruppo bancario di appartenenza.

Non paga di ciò, la stessa banca, dopo la revoca del mandato gestorio da parte della cliente, non forniva alcun riscontro alle lamentele (rectius: al reclamo) della parte attrice, né tantomeno alcun rendiconto circa l’attività svolta.

Va da sé che il tutto aveva generato una consistente perdita patrimoniale sulla gestione de qua, risultante dalla sommatoria della mancata percezione degli interessi sia sui titoli in portafoglio che su quelli (obbligazionari) mai acquistati, della mancanza di lucro derivante dal reimpiego delle predette somme, dalla perdita nel disinvestimento delle quote dei fondi arbitrariamente acquistate dalla banca, della svalutazione monetaria.

Dal canto suo, l’intermediario in questione si difendeva rappresentando che:

            i.                     la cliente aveva dato ordine di acquistare le obbligazioni senza precisare se attingere alla liquidità o ai titoli del suo conto di gestione;

           ii.                     l’obbligazione che una banca assume in un contratto come quello stipulato è “di mezzi” e non “di risultato”;

          iii.                     l’attività gestoria non è (sarebbe) sindacabile nei suoi aspetti meramente discrezionali, essendo questi ultimi di esclusiva pertinenza dell’intermediario-gestore;

         iv.                     l’acquisto delle quote di fondi era stato debitamente autorizzato, per cui non sussiste(rebbe) alcun conflitto di interessi; inoltre, i rendiconti di gestione erano stati regolarmente inviati.

L’organo giudicante non ha accettato queste controdeduzioni ed ha condannato l’istituto di credito al risarcimento dei danni, smontando ogni argomentazione come segue:

a)                               il concorso di norme sul mandato, sul contratto stipulato tra le parti e la buona fede nella sua esecuzione, accompagnate da quelle specifiche della (allora vigente) legge n.1/1991 porta a concludere che vi sia stata, da parte della banca, “inosservanza dei doveri di correttezza e diligenza professionale”;

b)                               l’acquisto di quote di fondi comuni del gruppo bancario è stato effettuato “in aperto conflitto di interessi”, non preventivamente rivelato e comunicato nella sua estensione; tale conflitto era rafforzato dalla modalità di effettuazione dell’acquisto de quo (contropartita diretta);

c)                                non essendo contestate (e contestabili) dalla banca le suddette evidenze, emerge chiara – secondo il Tribunale – la mala gestio della banca stessa nell’espletamento dell’incarico affidatole.

Nel resto della motivazione, il Giudice mostra di appuntare la sua attenzione su tutti gli elementi, in definitiva, indicativi della violazione delle norme sui conflitti di interesse.

Come aggravante, si richiama altresì l’inosservanza delle regole di diligenza “qualificata” richiesta dall’art. 1176, co. 2, cod. civ.

Da quanto sopra emerge quella che definiamo come “plurioffensività” della condotta della banca in questione, che si presta a divenire tale, se si leggono attentamente le norme vigenti, in qualsiasi caso di cattiva gestione di patrimoni o mancanza di diligenza nello svolgimento professionale di servizi di investimento.

Se si pone mente, infatti, all’art. 21 del d. lgs. n. 58 del 1998 (d’ora in poi, TUF), ed ai cinque “criteri generali” ivi enunciati come obbligatori per lo svolgimento dei servizi di investimento, ci si rende conto di come un medesimo comportamento poco diligente di un intermediario possa concretamente integrare gli estremi per la violazione degli altri obblighi previsti dalla norma.

Nel caso che qui si analizza, ad esempio, abbiamo la violazione dell’obbligo sub a) del comma 1, ma anche di quelli sub b), c) e, più propriamente, e).

L’art. 21 costruisce, quindi, un “reticolo” di regole pressochè ineludibile con meccanismi di “arbitraggio” normativo o comportamentale. Le fattispecie sono talmente (e volutamente) ampie da prestarsi a colpire qualsivoglia comportamento negligente, se non doloso [3].

Con questo si intende ribadire, in questo contesto, che le nostre norme – sia di primo che di secondo livello – in materia di intermediazione finanziaria, ora in fase di completamento con quelle sui cosiddetti “market abuse” [4], sono sufficienti ex se a garantire la tutela minima contro le devianze del mercato finanziario e di coloro che vi operano (o tentano di porsi) come free riders.

Non mancano, quindi, alla giurisprudenza gli strumenti per colpire siffatti comportamenti, né tantomeno alle Autorità di settore: una stessa inadempienza è riconducibile, allora, a differenti interessi violati, i quali sono tutti comunque sussumibili nella generica “tutela del risparmiatore-investitore”.

Per questo, secondo chi scrive, è quantomeno malposta la questione dei limiti al conflitto di interessi; si deve piuttosto parlare di limiti alla “discrezionalità” dell’intermediario, poiché quest’ultimo, se lasciato completamente “libero”, tenderebbe – ancorché in maniera inconsapevole – a privilegiare interessi ineluttabilmente incompatibili con quelli della clientela.

Le misure di enforcement allo studio delle Autorità competenti dovrebbero allora tenere conto di questa realtà: di contemperare, cioè, naturali tendenze, come già si accennava, al free riding – da un lato – e al moral hazard, dall’altro (perché anche alle “scorrettezze” del risparmiatore bisogna riferirsi se si vuole condurre un’analisi la più possibile obiettiva)[5]. Senza abdicare a soluzioni dirigistiche ma nemmeno eccessivamente liberiste, poiché fatti recenti rendono irrevocabile in dubbio la tesi, peraltro abbastanza elementare, che la vigilanza prudenziale sugli intermediari (e sugli emittenti) deve essere per definizione pervasiva, preventiva ed efficace, qualsiasi sia lo strumento concretamente utilizzato dai soggetti a ciò preposti[6].

3. Natura e limiti del conflitto di interessi: l’insufficienza di una ricostruzione dommatica.

Mette conto ribadire, ritornando per tale via al thema decidendum oggetto della pronunzia del Giudice capitolino, che la maggior parte della giurisprudenza registrata in subiecta materia ha riempito via via di contenuto questa definizione (rectius: concetto) del conflitto di interessi, sulla quale merita intrattenersi in questa occasione, certi del fatto che su di essa ruoterà sempre più non solo l’opera del legislatore (le tracce sono già evidenti), ma anche e soprattutto quella dell’interprete[7].

Partiamo dal dato normativo, per poi vedere se il Giudice de quo ha aggiunto elementi di novità alla configurazione che tenteremo di dare al conflitto in oggetto.

3.1. La norma primaria è quella che abbiamo già citato, divenuta una sorta di “tavola della legge” per l’intermediario abilitato ai servizi di investimento: l’art. 21 TUF.

Esso non poteva che limitarsi alla enunciazione di principi generali e, alla lettera c) del comma 1, impone ai soggetti de quibus di “organizzarsi in modo tale da ridurre al minimo il rischio di conflitti di interesse e, in situazioni di conflitto, agire in modo da assicurare comunque ai clienti trasparenza ed equo trattamento”.

Il legislatore sembra prendere atto del “conflitto” come di qualche cosa di ineluttabile, come di un’evenienza ineliminabile, ma solo evitabile e, al massimo, comprimibile.

Se proprio deve porsi una situazione di conflitto – a fronte della quale il regolamento Consob 11522/98 impone la disclosure e l’espressa autorizzazione (non dimentichiamolo) dell’operazione da parte del cliente -, essa deve essere gestita in modo da assicurare comunque alle potenziali “vittime” un equo trattamento, posto che la trasparenza non può che esaurirsi nella cennata evidenziazione della situazione conflittuale.

Un’ottica tutta preventiva, cui non fa seguito – in concreto – quella repressiva; una vasta casistica che non giunge, per svariati motivi, all’attenzione dei Tribunali ci insegna oggi che l’antinomia “equo trattamento” e “conflitto di interessi” appare difficilmente sanabile.

A conflitto esaurito, con tanto di provento per l’intermediario e corrispondente danno per l’investitore, rimane difficilissimo a quest’ultimo dimostrare – per l’appunto in assenza di una casistica o “modellistica” di riferimento - la situazione di fatto (perché di questo si tratta, quasi sempre) nella quale si è trovato sia lui che lo stesso intermediario.

Questa impostazione del problema, che sembra ormai in qualche misura “accettata” dal mercato e dai suoi tutors, non può assolutamente essere condivisa.

E l’errato convincimento di cui l’universo degli intermediari è impregnato, e del quale si fa scudo la banca chiamata in giudizio a Roma, secondo il quale cioè la discrezionalità è connaturata alle gestioni di patrimoni, è accettata all’atto della sottoscrizione del mandato gestorio, per cui è insindacabile nel merito, ne è la palese, sconfortante testimonianza.

Per questo il legislatore, anche comunitario, quasi “si rassegna” alla convivenza e ad una gestione ex post delle situazioni “ibride”, nelle quali vi è mescolanza di interessi personali dell’intermediario che soverchiano quelli del cliente[8].

Ma detta via è tanto più sbagliata quanto si pensi alla indefinibile mole di potenziali, quotidiane divaricazioni tra voluntas del soggetto gestito e interesse della business firm che possono verificarsi nell’espletamento di operazioni finanziarie.

Lungi da chi scrive l’idea di voler “ingessare” il mercato in modo da renderne impossibile il naturale movimento[9]; ma la patologia si può accettare se (e solo se) non diventi fisiologia, perché la cura perderebbe di efficacia; e, soprattutto, pericolosa sarebbe la sua accettazione come di virus inestirpabile, auspicando di rientrare nella percentuale di coloro che non ne verranno infettati!

3.2. Un primo spunto che questa (e altre) sentenze suggeriscono è senza dubbio quello di prestare maggiore attenzione a quell’insidioso legame che si va instaurando tra “discrezionalità del gestore” e “conflitti di interesse”.

Questi ultimi trovano infatti il loro humus ideale proprio nelle gestioni patrimoniali, essendovi minori possibilità attrattive negli altri servizi di investimento[10].

E’ facile rilevare come ogni qual volta vengano concessi, ex lege o ex contractu, spazi e deleghe “in bianco” all’intermediario, questo sia portato, naturaliter, a gestirli pro domo sua.

Nelle conclusioni a questo scritto accenneremo a quelle che sono, secondo chi scrive, le possibili soluzioni a tale problema.

Ma esiste una definizione o una casistica di quelle situazioni o circostanze che automaticamente ricadono nella “immagine”[11] del conflitto di interessi?

La buona dottrina ha provato a imbrigliare il concetto entro confini accettabili, non senza alcuni pregevoli spunti epistemiologici che si possono considerare validi in ogni caso.

E’ stata ad esempio proposta una lettura del conflitto di interessi in chiave penalistica, muovendo dal combinato disposto di cui agli artt. 21, lett. a), 40 (co. 1, lett. b) e 167 del TUF[12].

L’art. 27 del Reg. Consob 11522/98, poi, introduce la già cennata procedura del “consenso informato”, omologa a quella prevista dall’art. 45 per le gestioni patrimoniali.

Si potrebbe quindi affermare che un siffatto apparato normativo è sufficiente a “blindare” il risparmiatore; il che non sarebbe affatto vero, per almeno tre ordini di motivazioni:

a)       il “consenso informato” presuppone, per l’appunto, un’informativa del c.d. “contraente forte” che questi può non aver reso, o aver fornito in modo lacunoso ovvero criptico;

b)       il suddetto consenso è reso per iscritto su un modulo che, alla stregua di altri (rectius:di altre sezioni), può essere stato sottoscritto “in bianco”;

c)        infine, last but not least, si affida unilateralmente alla parte “forte” la cernita delle situazioni di potenziale conflitto.

Ed è quest’ultimo il vero punto critico di tutto l’impianto normativo, regolamentare e giurisprudenziale (nonché dottrinario) che si riscontra a tutt’oggi in subiecta materia: quando ci si trova in “conflitto di interessi”?

Qui vi è unanimità, nella dottrina sul tema, sulla indefinibilità della fattispecie[13].

Ma ciò è invero preoccupante ove si pensi che l’art. 167 TUF pone a base della gestione “infedele” proprio la “violazione delle disposizioni regolanti i conflitti di interesse”[14].

Può essere allora sufficiente dire che – quantomeno nell’attività gestoria[15]- si ha “conflitto” in tutti i casi in cui essa “è volta al conseguimento di effetti del tutto diversi da quelli tipicamente connessi a tale attività”?[16]

Ci si chiede, in altri termini, se elenchi quale quello proposto da Assogestioni[17], piuttosto che da attenta dottrina, possano aiutarci a non sconfinare addentrandoci nell’esame di questa fattispecie indubbiamente complessa.

Nel caso in rassegna, è in re ipsa che l’operazione di “distrazione di fondi” da una destinazione, voluta dal soggetto gestito, ad un’altra (voluta, al contrario, dal gestore) configura un classico della letteratura sul “conflitto di interessi”. Per il giudice adìto è stato (relativamente) facile pronunciare sentenza di condanna, ben argomentata e, secondo chi scrive, inappellabile[18].

Ma si può lasciare alla giurisprudenza l’arduo compito di riempire di significato, come in altri casi, anche questa terminologia così tecnica e di difficile gestione pratica?

Si può fare ricorso alla self-regulation per fare sì che gli intermediari, o le loro rappresentanze associative, si dotino di codici di condotta che facilitino l’individuazione dei “campi minati” in cui essi quotidianamente si muovono[19]?

Si può, infine, conferire alla Consob – come sarebbe forse più opportuno fare – la potestà, di cui peraltro già dispone, di stilare una sorta di “decalogo” delle situazioni da evitare[20]?

4. L’utilizzo di strumenti “anti-conflitto”: prevenzione o repressione?

 

Ritenendo, quindi, inidoneo l’apparato normativo-regolamentare in essere, si deve – secondo noi – partire da un possibile revirement in materia di interessi tutelati e norme di comportamento.

Il “conflitto di interessi” è, cioè, l’immagine di tutto quanto un intermediario trasparente, efficiente, organizzato, diligente non deve (e non può permettersi di) fare. Lo “statuto deontologico dell’intermediario mobiliare”[21], fondato sull’art. 21 TUF, va modificato.

Non abbiamo bisogno di “regole generali di comportamento”, perché esse – come è stato ricordato[22] - stanno già nel codice civile.

Dobbiamo, soprattutto oggi, adottare un’opzione univoca in questa materia, dando per scontato che a monte di tutto ci sono le regole del nostro (granitico) diritto positivo in tema di mandato, buona fede, diritti del consumatore, doveri del prestatore di servizi, tutela del risparmio, e così via[23].

Il vero problema è garantire una effettività a queste regole, così spesso violate, purtroppo anche in nome di una inevitabile asimmetria tra gli interessi in gioco – quelli degli intermediari e quelli dei risparmiatori – la quale, mercè la (presunta) intoccabilità di un mercato finanziario che non si può fermare, che deve seguire le sue regole (più economiche che giuridiche) speculative e globalizzate, viene comunemente accettata (da entrambe le parti in causa) come il prezzo da pagare per la libertà di investimento e di intrapresa.

Ben lungi, lo si ribadisce, dal voler avallare prassi dirigistiche che solo danni procurerebbero ad un meccanismo che, in ogni caso, è bene che non si inceppi in pastoie burocratiche e ridondanti quanto in inutili “assilli” prudenziali (che poi farebbero male, per primo, all’assetto della vigilanza ed al suo corretto esercizio), non ci si può esimere dall’apprezzare i tentativi di due dottrine, una dall’approccio giuscommercialistico e l’altro giusaziendalistico, che giova prendere a base per una più meditata decisione circa il metodo da seguire per arginare il fenomeno di cui discorriamo.

4.1. Il primo approccio, anche opportunamente comparatistico, prende atto dell’assenza, negli ordinamenti finanziari più evoluti, di una nozione di “conflitto di interessi”, ma non si  ferma a questo[24].

Si è andati, cioè, oltre, estrapolando da ciascuno degli ordinamenti considerati i casi più frequenti, eclatanti, comuni ai vari intermediari, stilando poi una casistica la quale, pur non essendo per forza di cose esaustiva, rappresenta una buona approssimazione alla realtà[25].

Piace anche condividere, con la dottrina citata [26], la distinzione tra conflitti “intrinseci” ed “estrinseci”.

I primi sono quelli che si sviluppano tra cliente e intermediario, mentre i secondi tra un cliente ed un altro dello stesso intermediario.

In verità, quest’ultima distinzione poco rileva, a nostro avviso, nell’economia dell’impostazione qui adottata, perché entrambe le fattispecie vanno ovviamente evitate e contrastate con gli stessi mezzi, in quanto promanano dalla stessa entità giuridico-economica: l’intermediario finanziario, il quale decide di avvantaggiare – con comportamenti scorretti – sé medesimo o un altro cliente. Ciò non dimenticando altresì che, com’è stato ricordato[27], “in una materia disciplinata dettagliatamente tra norma primaria e norma secondaria, la posizione dell’intermediario, dal punto di vista processuale, è comunque in salita, con il serio rischio di diventare una arrampicata”[28].

4.2. La seconda teoria, che recepisce impostazioni di matrice anglosassone, si incentra maggiormente sulle ontologiche differenze, sia funzionali che organizzative, tra attività di intermediazione e propensione all’investimento[29].

Essa è ben sintetizzata, nella sua scaturigine, da una attenta dottrina[30], la quale afferma che “il concetto di conflitto di interesse rileva, prima ancora che da un punto di vista giuridico, da uno economico; ed è agevole comprendere come tali reciproci interessi [quelli delll’intermediario e del suo cliente] siano in contrapposizione l’uno con l’altro (…)”. Da ciò deriva che i giuristi angloamericani hanno studiato il fenomeno de quo in relazione all’agency.

Si tratta della relazione “in cui una parte, il principal, trae beneficio quando un’altra parte, l’agent, esegue alcuni compiti con diligenza e lealtà. Tale modello economico è in grado di attrarre tutti i rapporti in cui un soggetto agisce nell’interesse di altri; rapporti caratterizzati da una asimmetria informativa che separa il principal dall’agent e che sottendono il pericolo che l’agent agisca negligentemente o in modo sleale”.

In siffatto contesto, sarà ovvio che “condizione per la realizzazione del conflitto di interessi è l’autonomia decisionale di cui gode un intermediario-fiduciario nell’amministrazione del patrimonio di un cliente-fiduciante”[31].

La soluzione sta allora nel comprimere al massimo tale autonomia? Certamente no, come si è già scritto; ma indubbiamente più corretto che reprimere – con norme, come si è visto, dalla dubbia valenza deterrente – sarebbe “prevenire”, muovendo dall’assunto che, in presenza di comportamenti sleali, siano essi dolosi o colposi, “sussiste il conflitto di interessi a prescindere dall’effettivo verificarsi di un danno in capo al cliente, essendo sufficiente la mera potenzialità”[32].

Per questo, la cennata dottrina, cui volentieri aderiamo, rammenta che il sistema inglese ha adottato la soluzione del fair treatment : esso è l’obiettivo da raggiungere e, soprattutto, “il parametro per verificare la legittimità dell’operato dell’intermediario in situazione di conflitto”[33].

4.3. Dov’è, allora, la soluzione al problema?

Indubbiamente non in queste note, ma – ci pare proponibile – in un diverso approccio, maggiormente “giuseconomico”, all’argomento.

Un intermediario non può, come giustamente è stato ricordato avvenire de iure condito, sfuggire, nel nostro Paese, alle sue responsabilità anche laddove esso dimostri di aver “agito al meglio”, di aver operato con le più efficaci tecniche di controllo e organizzazione interna, e così via; in altre parole, avendo semplicemente rispettato i “meccanismi formali” previsti dal TUF[34].

Partendo dalla lucida considerazione che “se appare irrealistico educare il risparmiatore all’autotutela, la presenza di investitori istituzionali seri funge, ad un tempo, da veicolo di razionale allocazione delle risorse e da strumento di protezione di un risparmio più o meno  “inerme”, anche e soprattutto culturalmente”[35], non può che essere su questi ultimi che il legislatore e le Authorities debbono puntare.

La sentenza in rassegna mostra di cogliere questa esigenza.

Sarà magari altresì auspicabile un potenziamento dei poteri sanzionatori in capo alla Consob, d’altronde oggetto di numerose richieste sia in dottrina che da parte del mercato[36].

Non certo dimenticando che “il problema del conflitto di interessi è nel numero di quelli che mettono a dura prova qualsiasi normativa di prevenzione e di (adeguata) tutela di chiunque consegni denaro al mercato finanziario”[37].

                                                                                                                                                            Ranieri Razzante



[1] Tribunale di Roma – sez. IX civile (g. Costa; Cirillo Elda contro Unicredito Italiano) n. 7348 del 18 febbraio 2002

Contratto di gestione patrimoniale – Inadempimento della banca. Operazioni in conflitto di interesse – Violazione del mandato gestorio

E’ colpevole di violazione del mandato gestorio la banca che effettui operazioni non autorizzate dal cliente a fronte di un rapporto di gestione patrimoniale.

Non può ritenersi ammissibile che un operatore professionale, in base all’ulteriore principio della diligenza prevista dall’art. 1176, comma secondo, c.c. (del c.d. “bonus argentarius”), possa tralasciare valutazioni di convenienza delle operazioni poste in essere per conto della clientela che sarebbero di intuitiva percezione anche per il cosiddetto uomo della strada

[2] In tal senso, M. Cossu, La gestione di portafogli di investimento tra diritto dei contratti e diritto dei mercati finanziari, Milano, 2002, p. 7 e ss., anche se l’A. fa riferimento alla disciplina dei “contratti di investimento”.

[3] Conformemente, G. Alpa, “Commento sub art. 21”, in Commentario al TU delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, a cura di Alpa e Capriglione, Padova, 1998, p. 220, il quale parla di obblighi “ex lege”, la cui violazione “può comportare sia responsabilità contrattuale, quando il rapporto con il danneggiato sia negoziale, sia responsabilità extracontrattuale, quando si sia in presenza di un mero contatto, dal quale sia derivato l’illecito”.

[4] Le direttive europee in materia (n. 2003/124 e 2003/125 del 22 dicembre 2003, pubblicate nella GUCE L339 del 24.12.2003) stanno per essere recepite dal nostro ordinamento, ma i loro principi sostanzialmente coincidono con quelli già vigenti in Italia. Si tornerà comunque in seguito sul loro contenuto.

[5] Su queste teorie economiche molti sarebbero gli scritti di approfondimento da suggerire. In questa sede, si rinvia a P. L. Scandizzo, Il mercato e l’impresa: le teorie e i fatti, Torino, 2002, p. 247 e ss.; L. Enriques, Le tecniche di prevenzione del moral hazard risk nella normativa italiana in tema di intermediazione gestoria, in Banca, Impresa e Società, 1995, 2, pp. 287-340; M. Lanotte, L’attività di gestione di patrimoni su base individuale delle banche, in Bancaria, 2002, pp. 62-75; F. Sartori, Il conflitto di interessi nel diritto dei contratti. Prospettive di analisi economica, in Riv.Dir.Banc., settembre 2003 (www.dirittobancario.it); F. Cavazzuti, Conflitti di interessi e informazioni asimmetriche nella intermediazione finanziaria, in Il diritto della borsa nella prospettiva degli anni novanta, a cura di G. Minervini, Napoli, 1993, pp. 17-35. Emblematica la definizione di “efficienza”che un Premio Nobel per l’Economia, James Tobin, dà dei mercati finanziari in un suo scritto: “un mercato è efficiente se nella media è impossibile guadagnare nel trading sulla base di informazioni a disposizione della generalità del pubblico” (“On the Efficiency of the Financial System”, in Lloyds Banks Review, n. 153/1984, p.2). Soggiunge Cavazzuti, op.loc.ult.cit., p.18, che “la ricerca della simmetria delle informazioni non deve comportare anche la ricerca di condizioni di assenza di ogni rischio per l’investitore, anche quando venga considerato come la parte contraente più debole”. Sulle asimmetrie informative e sul loro rapporto con la trasparenza del mercato si ricorda altresì lo scritto di R. Maviglia, L’attuazione delle condizioni di efficienza, in Il diritto del mercato mobiliare, a cura di C. Rabitti Bedogni, Milano, 1997, pp. 393-437. Da ultimo, si veda AA.VV., Rischio e rendimento nella gestione del risparmio, Quaderni Assogestioni, 2003, più che altro per una valutazione dei sistemi di controllo e risk management utilizzati dagli intermediari a presidio dei rischi dell’attività di gestione patrimoniale.

[6]Basti ricordare che l’esplicitazione, dapprima nel Testo Unico bancario del 1993, poi nel TUF, delle cosiddette “finalità” della vigilanza è stata valutata da ogni commentatore come una conquista nell’ottica della trasparenza dell’agere delle Authorities e della chiarezza intorno al concetto di “interesse tutelato” dalla normativa di settore.

[7] Per pronunzie molto simili a quella che qui si annota v., più recentemente, Trib. Biella, 3 gennaio 2001, in Giur. Comm., 2002, II, p. 242, con nota di Maccabruni; Cass. 6 aprile 2001, n. 5114, in Corr. Giur., n.8/2001, p.1062; ricavandone con interpretazione a contrariis, Trib. Napoli, 5 maggio 2000, in B.b.t.c., 2001, II, p.768; Trib. Biella, 24 gennaio 2001, in Giur. It., 2001, p. 2332; Trib. Sanremo, 13 gennaio 2003, in Dir. Fall., 2003, II, p.236.

[8] In senso analogo, Alpa, op. cit., p. 227. Si veda altresì F. Recine, Commento sub art.21, in Il TUF, a cura di C. Rabitti Bedogni, Milano, 1998, p.183.

[9] Anche perché, come afferma, tra gli altri, G. Napoletano, L’efficienza nello svolgimento dei servizi, in Il nuovo diritto societario e dell’intermediazione finanziaria, a cura di C. Di Noia-R.Razzante, Padova, 1999, p. 79, “il dovere di svolgere i servizi in modo efficiente ha anch’esso carattere, al contempo, prudenziale e di tutela degli investitori. (…) un intermediario inefficiente viene marginalizzato dal mercato, riduce la competitività complessiva ed il buon funzionamento del sistema finanziario; (…) l’inefficienza eleva i costi del servizio e può porre le premesse di comportamenti scorretti e imprudenti”. In senso analogo, di recente, M. E. Salerno, Commento sub art. 53, in Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, a cura di Belli, Contento, Patroni Griffi, Porzio, Santoro, vol. I, Bologna, 2003, p. 762.

[10]Anche se le stesse gestioni collettive non possono essere considerate completamente immuni da siffatti rischi. Come efficacemente afferma L. Nivarra, Conflitto di interessi e fondi pensione, in Riv Dir. Impresa, 1999, n.2, p.295, nei fondi pensione chiusi “la istituzionale separatezza tra il momento della raccolta e il momento della gestione prelude a quella proliferazione di soggetti che rappresenta il brodo di coltura del conflitto di interessi”. E’ vero però che anche nelle negoziazioni per conto proprio o per conto terzi “i negoziatori sono incentivati a privilegiare i propri interessi di negoziazione a scapito degli interessi del cliente”: così si esprime la relazione alla Proposta di Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio di modifica alla DSI [COM (2002) 625 del 19.11.2002, p.12], in particolare sulla possibilità – ivi adombrata – di “internalizzazione” degli ordini dei clienti. Non a caso, siamo sempre in un ambito di “discrezionalità” in qualche misura concessa (o allargata), da parte di (nuove) regole legislative/contrattuali, all’intermediario.

[11] Ci piace parlare di “immagine” poiché, come stiamo tentando di dimostrare, trattasi di una così variegata congerie di fatti, atti, situazioni, posizioni (non necessariamente giuridiche), che ne risulta impossibile una tipizzazione. Ciò è testimoniato, ad esempio, dalla ricostruzione della normativa sui servizi di investimento (e, segnatamente, delle gestioni patrimoniali) operata efficacemente da P. Gaggero, Commento sub art. 24, in Commentario al T.U., cit., p.269, laddove l’A. afferma che “non esiste per i contratti aventi ad oggetto la prestazione di servizi di investimento una lunga tradizione di partita disciplina delle fattispecie contrattuali e, tanto meno, di trasparenza“ e che “il grado di dettaglio e di analiticità della disciplina della legge 1/91 è scomparso nel d.lgs. 415/96 e ora nel T.U. finanza, che si affidano a regole generali, standard e clausole generali”. Riguardo a quest’ultima affermazione, sono illuminanti le considerazioni svolte da P.Ferro-Luzzi nel suo Le gestioni patrimoniali, in La riforma dei mercati finanziari, a cura di A. Predieri, Milano, 1993, p. 85 e ss., dove l’illustre A. tra l’altro ci suggerisce che la gestione è un “contratto di investimento in sé”, essendo valore mobiliare, “autonomo (ed autonomamente prospettabile) dai singoli contratti di investimento che costellano, puntualizzano la gestione”. Tale ultima ipostasi ci sembra rafforzi le conclusioni cui è giunta la giurisprudenza di merito che qui annotiamo. Si veda in tal senso, A. Antonucci, Note introduttive alla legge n. 1 del 2 gennaio 1991, in Dir. ban. mer. fin., 1992, I, p. 52.

[12] A.L.Maccari, Le disposizioni penali, in Intermediari finanziari, mercati e società quotate, a cura di P. Griffi, Sandulli e Santoro, Torino, 1999, p. 1296, la quale però dà per  scontata la considerazione che “la portata della nozione di conflitto d’interessi è decisamente ampia [essendo] numerose le norme che in maniera diretta o indiretta sono deputate a limitare o escludere situazioni di conflitto”.

[13] La stessa Maccari, op. cit., p.1297, aggiunge – a proposito della menzionata ricostruzione normativa – che “l’elenco non è esaustivo”, e che nell’opera di ricostruzione del precetto “emergono chiaramente i notevoli margini di indeterminatezza dell’art. 167 ed in quale misura le disposizioni extrapenali e di secondo grado partecipino alla configurazione del fatto di reato tanto che il reperimento delle disposizioni integratrici rischia il naufragio nel mare magnum dell’ordinamento giuridico”. V. anche C.Rabitti Bedogni, cit. in seguito, p. 101, che bene fa a ricordare che la fattispecie non è mai “identica a se stessa”.

[14] Per un commento della norma si veda P.Luccarelli, Commento sub art. 167, in Commentario al TUF, cit., p.911, dove però l’A. – secondo noi più correttamente di altri – individua l’interesse protetto dalla norma nella “esigenza di rendere più incisiva la tutela del risparmio che affluisce alle gestioni personalizzate o in forma collettiva”. Secondo lo stesso A., poi, la condotta penalmente rilevante non si individua solo attraverso l’esame della (già più volte) citata normativa  extrapenale, ma nel potere affidato alla Consob di “disciplinare il comportamento degli intermediari nei confronti degli investitori”. Come diremo in seguito, è la prospettiva che ci pare più adeguata al raggiungimento dello scopo.

[15] Nella quale è più facile, come ripetiamo, che la relazione con il conflitto de quo sia quasi fisiologica. Arg., tra gli altri, Cossu, op. cit., passim, con la corposa dottrina ivi citata.

[16]Così Luccarelli, op. cit., p.913.

[17] L’Associazione di categoria dei fondi, nel suo “Protocollo di Autonomia per le SGR”, Roma, 2001, p.4, riassume i conflitti in tre categorie: quelli derivanti da “rapporti di gruppo”, quelli da “altri rapporti di affari propri o di società del gruppo” e quelli derivanti “dalla prestazione congiunta di più servizi”. Per sua stessa ammissione, nel prosieguo della trattazione, l’autorevole Documento afferma quanto di più condivisibile si possa dire in proposito (p.5): “per vero, diverse disposizioni non espressamente dedicate ai conflitti di interesse acquistano, anche indirettamente, una particolare valenza in ordine a questo tema”, citando, a mo’ di esempio, quelle sulle c.d. “operazioni non adeguate”, sui “limiti all’acquisto” in caso di collocamenti da parte di società del gruppo di cui fa parte la stessa SGR, e così via. Si veda altresì M. Tezzon, Il conglomerato finanziario: il valore della trasparenza, 7 giugno 2002, sul sito www.consob.it (Pubblicazioni).

[18] Si è già avuto modo di affermare, in un primissimo quanto più scarno commento a questa sentenza (R. Razzante, Risoluzione per inadempimento del contratto di gestione patrimoniale, in Dir. Pr. Soc., n.20/2002, p.83), che detto commento “sembra già scritto nelle motivazioni del giudice di merito e, ancor più, nello stesso svolgimento dei fatti, che costituisce caso paradigmatico di cosa non si debba fare in un rapporto di gestione patrimoniale”.

[19] Propenderebbe per questa soluzione M. Onado, Mercati e intermediari finanziari, Bologna, 2000, p. 474.

[20] Qui non si può rinunciare alla tentazione di un facile parallelismo che, in materia solo apparentemente diversa ( quella della normativa c.d. “antiriciclaggio”), ha portato proprio ad una soluzione di tal fatta. Avendo, infatti, la legge n.197/1991 obbligato a segnalare all’UIC operazioni “sospette” di riciclaggio, ed annaspando - gli intermediari onerati dall’obbligo de quo  - nel tentativo di enucleare, di volta in volta, casi di anomalia nelle operazioni finanziarie della clientela, la Banca d’Italia ha emanato Istruzioni estremamente chiare e puntuali sul punto (il cosiddetto “Decalogo-ter” del 12 gennaio 2001, da noi commentato in Dir. Ban. mer. fin., 2001, II, p. 92 e ss.). Esse si caratterizzano, in particolare, per la presenza di una sezione contenente una fitta serie di “indicatori di anomalia” i quali, ben lungi dal costituire (evidentemente) presunzioni di colpa, fanno da guida agli operatori nell’esame di posizioni sospette. La materia, come si diceva, è solo “apparentemente” diversa, in quanto il fine è lo stesso: la tutela del risparmio, la quale meriterebbe – forse – un intervento analogo anche da parte di Consob sull’argomento che qui stiamo trattando. Si veda l’approccio utilizzato da A. Masi, Le condotte illecite  degli intermediari finanziari, Torino, 1998, p.66 e ss.

[21] Come lo chiama F. Bochicchio, Conformità agli interessi dei clienti negli investimenti mobiliari e statuto comportamentale degli intermediari, in Dir. Econ. Assic., 2001, p.931, il quale parla, peraltro, di regole “chiare e univoche”, ma non ugualmente delle “modalità applicative”. L’A., con straordinaria efficacia, riassume (da p.935 in poi) tutto quanto concorre, come abbiamo già scritto sinora, a sminuire l’effettività dei precetti, a tutto svantaggio dell’utente di servizi finanziari.

[22] Si vedano, tra gli altri: N. Salanitro, Società per azioni e mercati finanziari, Milano, 2000, p.178; M. Miola-P.Piscitello, Commento sub art. 17, in L’Eurosim, a cura di Campobasso, Milano, 1997, p. 117; M. Lembo, La gestione su base individuale di portafogli di investimento per conto terzi, in Dir. ban. mer. fin., 2000, I, p.229; arg. P.L Scandizzo, op. cit., p.248; ancorché con percorso argomentativo differente, Recine, op.cit., p.180; C.Rabitti Bedogni, Clausole generali, regole prudenziali…, in La riforma dei mercati mobiliari italiani, ABI, Roma, 1999, p.95, che fa rilevare come vi sia stata l’aggravante della sovrapposizione, da parte del legislatore, di “regole rilevanti sul piano negoziale e, quindi, attinenti alla tutela civilistica dei diritti, ai principi regolatori dell’attività di vigilanza delle autorità competenti”; F.Vismara, Profili di diritto internazionale privato della gestione del risparmio, in Giur. Comm., 2001, I, p.603; anche se in prospettiva apparentemente contraria, perché parte della considerazione (forse errata) della gestione patrimoniale come “rapporto” e non come “contratto”, si veda altresì L.Salamone, Osservazioni a Trib. Napoli, 5 maggio 2000 in tema di gestioni patrimoniali, in B.b.t.c., 2001, II, p.771; M.De Mari-L.Spada, Orientamenti in tema di intermediari  e promotori finanziari, in Foro It., 2002, I, p. 866; P.Gaggero, I contratti di gestione patrimoniale, in Contr. e Impr., 2001, p. 700 e ss.; S.Sanzo, Evoluzione normativa in materia di forma degli ordini di borsa, in Giur. It., 1998, II, p.302; R.Razzante, I contratti conclusi sul sistema telematico di borsa, in I contratti del mercato finanziario, a cura di E. Gabrielli e R. Lener, Torino, 2004, p. 453; M.Lembo, Novità ed aspetti critici nella gestione del risparmio, in Dir. Fall., 2002, I, p.695, ancorché con riferimento ai profili di responsabilità dell’intermediario per omessa diligenza professionale. Al contratto viene assegnato, “tramite l’informazione minima obbligatoria, un ruolo di politica economica:quello di fare in modo che consenso informato, autonomo e rischio costituiscano i postulati fondanti di un mercato regolato di concorrenza” da G.Carriero, Nuove prospettive di tutela del risparmiatore, in NGCC, 2002, II, p.499. Sottolinea molto opportunamente F.Capriglione, Innovazione finanziaria ed evoluzione dell’ordinamento giuridico, in NGCC, II, p.421, il ruolo crescente che vanno ad assumere, sotto il profilo delle fonti del diritto finanziario internazionale, “il ricorso alla fissazione di standards operativi, di engagements, di guidelines, di best practices, di principi ordinatori uniformi per l’esercizio delle funzioni di supervisione creditizia”.

[23] Come è stato giustamente affermato da M. Sepe, Il risparmio gestito, Bari, 2000, p. 120, a proposito delle disquisizioni dottrinali (alla cui citazione si fa rinvio) circa l’applicabilità o meno, in via residuale, delle regole sul mandato alle gestioni individuali, “la questione appare comunque di scarsa rilevanza pratica, considerato che per i profili contrattuali non regolamentati dal testo unico deve riconoscersi comunque l’applicabilità delle norme di cui agli artt. 1703 e ss., o in via diretta, qualora si aderisca alla tesi della riconducibilità della gestione individuale alla figura del mandato, ovvero, in via analogica, qualora si propenda per una “tipizzazione forte” del contratto di gestione”. Nel caso che qui analizziamo, trattandosi di banca, “la qualità professionale assume un rilievo particolare”, come ricorda – ancorché in generale sui contratti bancari – C. Silvetti, Disciplina generale dei contratti bancari, in La banca: l’impresa e i contratti, vol. VI del Trattato di Diritto Commerciale (diretto da G. Cottino), Padova, 2001, p. 459. Autorevole conferma della bontà del riferimento alle regole generali del nostro diritto civile viene anche da M. Bessone, I mercati mobiliari, Milano, 2002, p. 152, al quale si rinvia per copiose considerazioni sull’argomento oggetto del presente scritto.

[24] Si tratta di R.Alessi, La disciplina dell’intermediazione mobiliare in una prospettiva comparatistica: in particolare il conflitto di interessi, in La riforma dei mercati finanziari, cit., p.182 e ss. Questa assenza perdura, inoltre, anche dopo l’emanazione della già citata direttiva 2003/125/CE del 22 dicembre 2003 recante proprio le “modalità di esecuzione della direttiva 2003/6/CE del Parlamento europeo e del Consiglio per quanto riguarda la corretta presentazione delle raccomandazioni di investimento e la comunicazione al pubblico di conflitti di interesse”. E’ singolare che nell’art. 1 del provvedimento de quo siano presenti varie definizioni, ma non quella di “conflitti di interesse”; ugualmente, negli artt. 5 e 6, ove si affrontano i conflitti de quibus, non è dato ricavarne alcuna impostazione che consenta di trarne univoche indicazioni definitorie (va però detto che forse il legislatore è stato qui condizionato dalla “non universalità” del provvedimento, che si riferisce solo a coloro che effettuano comunicazioni al pubblico e analisi finanziarie). Inoltre, la tecnica utilizzata per la prevenzione dei conflitti è ancora quella della comunicazione preventiva dei medesimi, sulla cui (debole) tenuta abbiamo già avuto modo di esprimerci in questo scritto.

[25] L’A. ha correttamente precisato (v.p.183) che “alcune delle ipotesi ricordate incontrano peraltro un espresso divieto normativo (anche nella disciplina italiana), …, mentre altre costituiscono solo operazioni equivoche che, in base alle circostanze concrete, possono o meno sfociare in un conflitto”. Si tratta di quella prospettiva molto più sommessamente adombrata da chi scrive che mira – in un’ottica tutta preventiva – alla costruzione di un ”decalogo anti-conflitti”.

[26] Lo stesso Alessi, op.cit., p.182, ma anche (in precedenza) M.C.Merani, Il problema del conflitto di interesse nell’intermediazione mobiliare, in I valori mobiliari, a cura di G. Alpa, Padova, 1991, p.326, la quale definisce – precisandone la derivazione anglosassone “non strettamente giuridica” – il conflitto di interessi come “il mancato rispetto del dovere di collaborazione “che comporta “l’insorgere di conflittualità tra cliente e intermediario”. Tale impostazione, che potrebbe da taluni essere tacciata di genericità, sarebbe al contrario utilizzabile in quell’ottica di predefinizione delle situazioni anomale in via residuale, come cioè di mancato rispetto dei doveri di diligenza e di tutti gli altri contenuti nelle norme del TUF e di esso attuative. In tal senso, G.Carriero, op. ult. cit.,p.496; P.Montalenti, Tutela dell’investitore e del mercato, in NGCC, 2002, II, p.453, ove interessanti riferimenti alla proporzionate liability.

[27] Così M.Lembo, Novità ed aspetti critici nella gestione del risparmio, cit., p.695, il quale – ancorché ciò non giovi, per quanto si è detto sinora, alla posizione assunta in questo scritto – aggiunge che la eventuale “prova liberatoria” fornita dall’intermediario non esclude il “concorso di colpa del danneggiato”; con il che non si può, evidentemente, concordare, in quanto ciò agevolerebbe quella percezione di “impunibilità” (rectius: impunità) dell’intermediario, il cui contrario costituirebbe invece – non certo in un ambiente di mera moral suasion – la chiave per il successo di una politica di prevenzione. In senso analogo, muovendo dall’idea che le dimensioni individuali (e nel loro insieme) degli intermediari “sono tali da presentare notevoli difficoltà nello stabilire e far rispettare le regole”, lo scritto di V.Zeno Zencovich, La direttiva sui servizi finanziari a distanza resi al risparmiatore, in NGCC, 2002, II, p.518. Contra, F.Maccabruni, op.cit., p.261.

[28] Poco valendo, sempre per tornare all’impostazione iniziale, l’assunta (e forse tropo scontata, per la dottrina) “discrezionalità” della quale godrebbe (pare) in maniera pressoché assoluta il gestore (cfr. M.Gaeta, La gestione individuale di portafogli di investimento. La discrezionalità del gestore e l’autorizzazione del cliente, in Giur. It., 2001, p.2332).

[29] Fonti essenziali cui attingere per maggiori dettagli sono F.Sartori, Il conflitto di interessi tra intermediari e clienti nello svolgimento dei servizi di investimento e accessori:un problema risolto?, in Riv. Dir. Civ., 2001, II, pp.191-225 (e dottrina ivi citata); R.Alessi, op.cit., p.182 e ss.; M.C. Merani, op.cit. passim; P. Montalenti, op. cit., passim; S. Fabrizio, op.cit., p.194; F.Capriglione, op.ult.cit.; C.A.Falzetti, Il conflitto di interessi nell’attività di negoziazione di valori mobiliari, in La riforma dei mercati finanziari, cit., pp.161-175; F..Annunziata, Regole di comportamento degli intermediari e riforme dei mercati mobiliari, Milano, 1993, passim; ancora, S. Gentile, La regolamentazione del sistema finanziario nel Regno Unito, in Dir. Ban. Mer. Fin., 2001, II, pp.208-237.

[30] F.Sartori, op.ult.cit., p.194.

[31] F.Sartori, in ibidem, p.195.

[32] F.Sartori, cit., p.196, che si pone in una prospettiva di corporate liability totalmente opposta a quella da noi vigente la quale, come noto, richiede non un mero periculum damni, ma che questo si sia tradotto in un’effettiva perdita patrimoniale (più difficile da dimostrare!) per il risparmiatore. Con la conseguenza, che ci pare francamente assurda, che – dimostrata l’esistenza del conflitto da parte dell’intermediario – il cliente leso da detto comportamento non possa agire in giudizio se non fornisce la prova della “trasformazione” dello stesso in un danno economico-patrimoniale.

[33] Si veda lo stesso Sartori, cit., p.199, ma soprattutto le copiose dottrina e legislazione estere ivi menzionate. Richiama la “correttezza” quale regola di comportamento, come per noi, “assorbente” rispetto a tutte le altre, anche C. M. de Iuliis, Lineamenti di diritto del mercato finanziario, Milano, 2003, p. 23. 

[34] Così, sempre, Sartori, op.cit., p. 208; conformi, in tema di fondi, Enriques, op.cit., p.321 e G.Visentini in La disciplina delle gestioni patrimoniali, Assogestioni, Roma, 2000, p.138; nel senso dell’attribuzione della responsabilità al controller interno relativamente al rispetto degli obblighi in questione (e segnatamente di quello di separatezza patrimoniale, anticamera del conflitto) si pronuncia C. Rabitti Bedogni, Clausole generali, regole prudenziali…., cit., p. 102. Arg. inoltre, F.Chiappetta, La disciplina del conflitto di interessi, in La riforma dei mercati finanziari, a cura di Ferrarini e Marchetti, Milano, 1998, p.121.

[35] R.Lener, Le SGR. Prevenzione dei conflitti di interesse e tutela del cliente, in Banca, Impresa e Società, 1999, n.3, p.367.

[36] Come ricorda S.Cappiello, Commento alla Proposta di Direttiva sul market abuse, in Foro It., 2002, IV, p. 283.

[37] M.Bessone, Servizi di investimento e disciplina del contratto, in Giur. Merito, 2002, IV, p.1421.

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