LA STORIA INFINITA DELLE TERRE E ROCCE DI SCAVO
TRA DIRITTO NAZIONALE E DIRITTO COMUNITARIO
Giancarlo CAROSSO
Ingegnere – docente diritto ambientale Univ. TO – socio AGEIE
Sommario
La nota tratta nel dettaglio il problema dell’inserimento o meno delle terre e rocce di scavo derivanti da operazioni minerarie (cave o miniere) e civili (gallerie e scavi necessari per la costruzione di varie tipologie di strutture e infrastrutture) nel campo di applicazione delle normative sui rifiuti. Per completezza di esposizione, si parte dal decreto Ronchi (D. Lgs 22/97) proprio perché, se così si può dire, la “data di nascita” del problema risale all’entrata in vigore del medesimo. La questione che si trascina dal 1997, con tutto quanto ne deriva in relazione all’incertezza del diritto e al danno economico per gli operatori del settore, viene affrontata dal legislatore italiano con vari provvedimenti fino al D.Lgs 152/2006, recante “Norme in campo ambientale” che ha abrogato, a far data dal 29 aprile 2006, il D.Lgs 22/1997. Viene evidenziato l’atteggiamento al riguardo della Commissione Ue e le relative pronunce della Corte di Giustizia europea. Venendo alla giurisprudenza italiana, tra le tante si sceglie di esaminare un’ordinanza molto articolata della Commissione Tributaria della Regione Toscana che solleva al riguardo questione di legittimità costituzionale dell’art. 186, D.Lgs 152/06. Da ultimo si prende in esame la revisione dell’art. 186, appunto sulle terre e rocce di scavo, effettuata, in prima lettura, dal Consiglio dei Ministri del 12 ottobre 2006.
1. IL PROBLEMA VISTO DAL D. LGS 22/97 E DALLA COMMISSIONE CE
Il DLgs 22/1997di recepimento nell ’ordinamento nazionale delle direttive 91/156/CEE sui rifiuti, 91/689/CEE sui rifiuti pericolosi e 94/62/CE sugli imballaggi, nella sua prima versione (S.O. alla GU 15.02.1997 n. 38) all ’art. 7, c. 3, lett. b) – più noto come decreto Ronchi - classifica tra i rifiuti speciali “i rifiuti derivanti dalle attività di demolizione, costruzione, nonché i rifiuti pericolosi che derivano dalle attività di scavo ”; prendendo in questa sede in considerazione solo i rifiuti derivanti da attività di scavo e venendo ad esaminare il successivo art. 8, tra le esclusioni dal campo di applicazione del decreto, si trovano, al c. 2, lett. c), “i materiali non pericolosi che derivano da ’attività di scavo ”.
La Commissione CE, con lettera di messa in mora del 23.09.97 (SG(97)7860 – procedura 95/2184) censurò tale esclusione e l’Italia, con il DLgs 08.011.97 n. 389 abrogò la disposizione che permetteva l'esclusione dei materiali non pericolosi che derivano dall'attività di scavo.
Con l'art. 10, c. 1, L 23.03.01 n. 93 viene nuovamente inserito, tra le esclusioni di cui all ’art. 8 (al c. 1, lett. f-bis), lo stesso materiale in un modo più articolato, con la dizione“ le terre e le rocce da scavo destinate all'effettivo utilizzo per reinterri, riempimenti, rilevati e macinati, con esclusione di materiali provenienti da siti inquinati e da bonifiche con concentrazione di inquinanti superiore ai limiti di accettabilità stabiliti dalle norme vigenti.
Alla fine dello stesso anno, l’art. 1, c. 17, L 443/2001 (c.d. legge Lunardi) interpreta tale lettera e su di essa la L 31.10.03 n. 306 (Legge Comunitaria 2003) ritorna con
un ’interpretazione più dettagliata. Ovvero: le terre e rocce da scavo, anche di gallerie, non costituiscono rifiuti e sono, perciò, escluse dall'ambito di applicazione del DLgs 22/1997 solo nel caso in cui, anche quando contaminate, durante il ciclo produttivo, da sostanze inquinanti derivanti dalle attività di escavazione, perforazione e costruzione siano utilizzate, senza trasformazioni preliminari, secondo le modalità previste nel progetto sottoposto a VIA ovvero, qualora non sottoposto a VIA, secondo le modalità previste nel progetto approvato dall'autorità amministrativa competente previo parere dell'Arpa, sempreché la composizione media dell'intera massa non presenti una concentrazione di inquinanti superiore ai limiti massimi previsti dalle norme vigenti.
Il successivo c. 18 dispone che “il rispetto dei limiti di cui al comma 17 è verificato può essere verificato in accordo alle previsioni progettuali anche mediante accertamenti sui siti di destinazione dei materiali da scavo. I limiti massimi accettabili sono individuati dall'allegato 1, tabella 1, colonna B, del decreto del Ministro dell'ambiente 25 ottobre 1999, n. 471, e successive modificazioni, salvo che la destinazione urbanistica del sito non richieda un limite inferiore. ”
Il successivo c. 19 (come modificato dalla L 306/2003) dispone che “per i materiali di cui al comma 17 si intende per effettivo utilizzo per reinterri, riempimenti, rilevati e macinati anche la destinazione a differenti cicli di produzione industriale, ivi incluso purché sia progettualmente previsto l'utilizzo di tali materiali, intendendosi per tale anche il riempimento delle cave coltivate, nonché la ricollocazione in altro sito, a qualsiasi titolo autorizzata dall'autorità amministrativa competente previo, ove il relativo progetto non sia sottoposto a VIA, parere dell'Arpa, a condizione che siano rispettati i limiti di cui al comma 18 e la ricollocazione sia effettuata secondo modalità di rimodellazione ambientale del territorio interessato.
Qualora i materiali di cui al comma 17 siano destinati a differenti cicli di produzione industriale, le autorità amministrative competenti ad esercitare le funzioni di vigilanza e controllo sui medesimi cicli, provvedono a verificare, senza oneri aggiuntivi per la finanza pubblica, anche mediante l'effettuazione di controlli periodici, l'effettiva destinazione all'uso autorizzato dei materiali; a tal fine l'utilizzatore è tenuto a documentarne provenienza, quantità e specifica destinazione ”.
Il 26.06.02 la Commissione CE intraprende una nuova procedura di infrazione (C(2002)2201) contro l’Italia, ricordando la censura del 1997 e richiamando l’attenzione sulla definizione di rifiuto di cui all ’art. 1(a), direttiva 91/156/CEE (“rifiuto": qualsiasi sostanza od oggetto che rientri nelle categorie riportate nell'allegato I e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l'obbligo di disfarsi ”), definizione integralmente recepita nel DLgs 22/97 all ’art. 6, c. 1, lett. a). Così si esprime la Commissione: “Conformemente a quanto stabilito in questa disposizione, la Commissione ha adottato un elenco di rifiuti che rientrano nelle categorie di cui all'allegato I. Tale elenco, nella versione vigente (decisione della Commissione 532/2000/CE, modificata …omissis..) contiene, fra le altre, le voci: “terra (compreso il terreno proveniente da siti contaminati), rocce e fanghi di dragaggio ” (codice 1705), all'interno della quale figurano le voci “terra e rocce, contenenti sostanze pericolose ” (codice 17 05 03*, rifiuti pericolosi) e “terra e rocce, diverse da quelle di cui alla voce 17 05 03 ” (codice 17 05 04, rifiuti non pericolosi). ”
L ’attenzione della Commissione CE si concentra sui succitati artt.10, L 93/2001 che ha inserito la lettera “f-bis ” all'art. 8, c. 1, DLgs 22/97 e 11, c. da 17 a 19, legge Lunardi rilevando come “il dispositivo congiunto dell'articolo 10 della legge n. 93 del 2001 e dell'articolo 1, commi 17 e 19, della legge n. 443 del 2001 comporta un'esclusione delle terre e rocce da scavo destinate a certe operazioni di riutilizzo dall'ambito di applicazione della normativa nazionale sui rifiuti. A parere della Commissione, questa esclusione, che ha per effetto la non applicabilità delle disposizioni sulla gestione dei rifiuti di cui alla direttiva 91/156/CEE, è contraria alla direttiva stessa, che non può essere derogata da una norma di diritto interno, e che non prevede alcuna esclusione dal suo ambito di applicazione per tali rifiuti.
La Commissione considera le terre e rocce da scavo destinate ad operazioni di riutilizzo o recupero come rifiuti, in quanto soddisfano le condizioni stabilite dall'articolo 1(a) della direttiva 91/156/CEE. Tali operazioni fanno parte, ai sensi della direttiva, della gestione dei rifiuti (articolo 2 d)) e come tali devono essere oggetto del sistema di sorveglianza istituito dalla direttiva stessa.
Le terre e rocce da scavo sono materiali di cui il detentore vuole disfarsi e sono inoltre elencati nel catalogo europeo dei rifiuti, come sopra riportato. Pertanto, le terre e rocce da scavo devono essere considerate coperte dalla definizione di rifiuto, e di conseguenza, incluse nell'ambito di applicazione della disciplina comunitaria sui rifiuti, come stabilito dalla direttiva (articolo 1 a) in combinato disposto con la decisione che ha istituito il catalogo europeo dei rifiuti (codici 170503 e 170504).
Il fatto che le terre e rocce da scavo siano escluse dall'ambito di applicazione della normativa italiana sui rifiuti unicamente in quanto destinate all'effettivo riutilizzo per reinterri, riempimenti, rilevati e macinati non è rilevante. La definizione di rifiuto di cui alla direttiva comprende infatti anche i materiali destinati ad operazioni di riutilizzo o recupero, dato che il termine disfarsi include nel contempo lo smaltimento e il recupero di una sostanza o di un oggetto. ”
2. IL PARERE DI PARTE DELLA DOTTRINA E DELLA GIURISPRUDENZA CGCE
Parte di autorevole dottrina argomenta che l'art. 7, c. 3, lett. b) del decreto Ronchi (che tra i rifiuti speciali cita "i rifiuti derivanti dalle attività di demolizione, costruzione, nonché i rifiuti pericolosi che derivano dalle attività di scavo") avrebbe indotto taluni a ritenere che i rifiuti non pericolosi derivanti da attività di scavo non siano rifiuti. Tale assunto viene ritenuto, da vari Autori, destituito di fondamento in considerazione della definizione di rifiuto di cui all'art. 6, c. 1, lett. a) DLgs 22/1997.
Non solo: si sostiene che tali rifiuti non pericolosi sono speciali, ancorché non citati in ragione della loro derivazione dalle attività che li generano. “Infatti, le lettere c) e d) del citato articolo 7, comma 3, indicano come “speciali ” i rifiuti derivanti (rispettivamente ed inevitabilmente) da “lavorazioni industriali ” e “artigianali ” “.
Venendo alla Corte di Giustizia CE, si può far riferimento alla sentenza 11 settembre 2003 (C-114/01- AvestaPolarit Chrome Oy, già Outokumpu Chrome Oy) secondo la quale i residui di produzione, laddove riutilizzati nello stesso processo del produttore (e non – si badi bene - nello steso ciclo posto in essere da un soggetto diverso), e purché ciò sia necessario al processo medesimo, non sono rifiuti (fattispecie: detriti o sabbia di scarto da operazioni di arricchimento di minerale provenienti dallo sfruttamento di una miniera utilizzati per ripienare le gallerie della stessa miniera, fornendo garanzie sufficienti sull'identificazione, l'uso effettivo di tali sostanze e purché tale riutilizzo sia una tappa del processo di produzione originario). In questa sentenza la Corte ha richiamato sue precedenti pronunce.
Tra queste è particolarmente significativa la sentenza C-9/00, Palin Granit Oy in base alla quale i detriti derivanti dallo sfruttamento di una cava di pietra, depositati a tempo indeterminato in attesa di un possibile utilizzo sono rifiuti, a prescindere dal fatto che essi non comportino reali pericoli per la sanità pubblica o l'ambiente. La Corte argomenta che la nozione di rifiuto va interpretata in maniera estensiva e si esce dal campo dei rifiuti solo se il riutilizzo di un materiale sia non solo eventuale, ma certo, senza trasformazione preliminare, e nel corso del medesimo processo di produzione. Nella specie (punto 38 della sentenza) “le uniche modalità prevedibili di riutilizzo dei detriti nella loro forma esistente, ad esempio per lavori di riporto o per la costruzione di porti e frangiflutti, necessitano, nella maggior parte dei casi, di operazioni di deposito che possono avere una certa durata, rappresentare un intralcio per chi sfrutta la cava ……. Il riutilizzo, quindi, non è sicuro ed è prevedibile solo a più o meno lungo termine, cosicché i detriti possono essere considerati solo “residui provenienti dall'estrazione ”, di cui l'imprenditore ha “deciso o[ha] l'obbligo di disfarsi ”, ai sensi della direttiva 91/156 ”.
3. LE TERRE E ROCCE DA SCAVO ALL ’ART. 186, DLGS 152/2006
Premesso che non rientra nello scopo di queste brevi note entrare nel merito del DLgs 152/2006, recante attuazione della legge delega 308/2004, ed entrato in vigore il 29 aprile 2006, si ritiene comunque utile – per fornire un quadro più completo sull ’argomento, fornire un riassunto dell ’art. 186 - Parte IV su rifiuti e bonifiche, interamente dedicato alla vexata quaestio .
Il c. 1 statuisce che le terre e rocce da scavo, anche di gallerie, ed i residui della lavorazione della pietra destinate all ’effettivo utilizzo per reinterri, riempimenti, rilevati e macinati non costituiscono rifiuti e sono, perciò, esclusi dall'ambito di applicazione della relativa normativa: ciò solo nel caso in cui, anche quando contaminati, durante il ciclo produttivo, da sostanze inquinanti derivanti dalle attività di escavazione, perforazione e costruzione siano utilizzati, senza trasformazioni preliminari, secondo le modalità previste nel progetto sottoposto a VIA ovvero, qualora il progetto non sia sottoposto a VIA, secondo le modalità previste nel progetto approvato dall'autorità amministrativa competente, ove ciò sia espressamente previsto, previo parere delle Agenzie regionali e delle province autonome per la protezione dell'ambiente, sempreché la composizione media dell'intera massa non presenti una concentrazione di inquinanti superiore ai limiti massimi previsti dalle norme vigenti e dal decreto di cui al c. 3. Viene introdotto al c. 2 il concetto che le opere il cui progetto è sottoposto a VIA costituiscono unico ciclo produttivo, anche qualora i materiali di cui al c. 1 siano destinati a differenti utilizzi, a condizione che tali utilizzi siano tutti progettualmente previsti.
Il rispetto dei limiti di cui al c. 1 può essere verificato (c. 3), in alternativa agli accertamenti sul sito di produzione, anche mediante accertamenti sui siti di deposito, in caso di impossibilità di immediato utilizzo. I limiti massimi accettabili nonché le modalità di analisi dei materiali ai fini della loro caratterizzazione, da eseguire secondo i criteri di cui all ’All. 2 del Titolo V(dedicato alle bonifiche dei siti contaminati) della parte IV del decreto, sono determinati con DM da emanarsi entro 90 giorni dall'entrata in vigore della parte IV medesima, salvo limiti inferiori previsti da disposizioni speciali. Sino all’emanazione del predetto decreto continuano ad applicarsi i valori di concentrazione limite accettabili di cui all'All. 1, tab. 1, colonna B, del DM 471/1999 che detta prescrizioni sulle bonifiche dei siti contaminati.
Il rispetto dei limiti massimi di concentrazione di inquinanti di cui al c. 3 deve (c. 4) essere verificato mediante attività di caratterizzazione dei materiali di cui al c. 1, da ripetersi ogni qual volta si verifichino variazioni del processo di produzione che origina tali materiali. Il c. 5 specifica che per i materiali di cui al c. 1 si intende per effettivo utilizzo per reinterri, riempimenti, rilevati e macinati anche la destinazione progettualmente prevista a differenti cicli di produzione industriale, nonché il riempimento delle cave coltivate, oppure la ricollocazione in altro sito, a qualsiasi titolo autorizzata dall'autorità amministrativa competente, qualora ciò sia espressamente previsto, previo, ove il relativo progetto non sia sottoposto a VIA, parere delle Agenzie regionali e delle province autonome per la protezione dell'ambiente, a condizione che siano rispettati i limiti di cui al c. 3 e la ricollocazione sia effettuata secondo modalità progettuali di rimodellazione ambientale del territorio interessato. Il parere (c. 9) deve essere reso nel termine perentorio di trenta giorni, decorsi i quali provvede in via sostitutiva la regione su istanza dell ’interessato.
Qualora i materiali di cui al c. 1 siano destinati a differenti cicli di produzione industriale, le autorità amministrative competenti ad esercitare le funzioni di vigilanza e controllo sui medesimi cicli provvedono a verificare, senza oneri aggiuntivi per la finanza pubblica, anche mediante l'effettuazione di controlli periodici, l'effettiva destinazione all'uso autorizzato dei materiali; a tal fine l'utilizzatore è tenuto a documentarne provenienza, quantità e specifica destinazione.
Ai fini del parere (c. 7) delle Agenzie regionali e delle province autonome per la protezione dell'ambiente, di cui ai c. 1 e 5, per i progetti non sottoposti a VIA, alla richiesta di riutilizzo ai sensi dei commi precedenti è allegata una dichiarazione del soggetto che esegue i lavori ovvero del committente, resa ai sensi dell ’art. 47, DPR 445/2000, nella quale si attesta che nell ’esecuzione dei lavori non sono state utilizzate sostanze inquinanti, che il riutilizzo avviene senza trasformazioni preliminari, che il riutilizzo avviene per una delle opere di cui ai c. 1 e 5 dell ’ articolo in esame, come autorizzata dall ’autorità competente, ove ciò sia espressamente previsto, e che nel materiale da scavo la concentrazione di inquinanti non è superiore ai limiti vigenti con riferimento anche al sito di destinazione.
Il c. 8 prevede che nel caso in cui non sia possibile l’immediato riutilizzo del materiale di scavo, dovrà anche essere indicato il sito di deposito del materiale, il quantitativo, la tipologia del materiale ed all’atto del riutilizzo la richiesta dovrà essere integrata con quanto previsto ai c. 6 e 7. Il riutilizzo dovrà avvenire entro sei mesi dall’avvenuto deposito, salvo proroga su istanza motivata dell’interessato.
4. LA QUESTIONE DI LEGITTIMITA’ COSTITUZIONALE DELL’ART. 186
La Commissione Tributaria Regionale della Toscana, con ordinanza 9 maggio 2006 ha sollevato d’ufficio questione di legittimità costituzionale dell’art. 186, D.Lgs. 152/2006, per violazione degli artt. 11 e 117 Costituzione, dichiarandola rilevante e non manifestamente infondata, sospendendo il giudizio in corso ed ordinando la immediata trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale.
Si tratta di questione di non poco momento.
Ad un consorzio gestore di 2 discariche per inerti, autorizzate dalla provincia di Firenze (atto n. 429 del 4 dicembre 1996), viene contestato, tra l’altro, l’uso dello smarino (risp. 417.506,75 e 153.000 m3 di materiale) prodotto a seguito della costruzione del tratto Bologna Firenze della linea ferroviaria ad alta velocità Milano Napoli, per “rimodellamento ambientale”: si tratta di eventi la cui data di inizio risale alla metà/fine degli anni ’90.
E’ “istruttivo” notare come l’ordinanza ripercorra scrupolosamente tutto il periodo in cui, a proposito delle terre e rocce di scavo, si sono avvicendate disposizioni nazionali contrastanti tra loro e non in armonia con il diritto comunitario.
In merito l’ordinanza sottolinea “come nel nostro Paese le caratteristiche che, in ambito comunitario, individuano la nozione di “rifiuto” sono state originariamente riprodotte nell’art. 6, comma 1 – lett. a), del D.Lgs. 5.2.1997, n. 22 (che ha recepito le modifiche del 1991 alle due direttive comunitarie sui rifiuti) secondo cui “è rifiuto qualsiasi sostanza od oggetto che rientra nelle categorie riportate nell’Allegato A e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi”.”
Il primo elemento essenziale della nozione di “rifiuto” è costituito, pertanto, dall’appartenenza ad una delle categorie di materiali e sostanze individuate nel citato Allegato A), ma l’elenco delle 16 categorie di rifiuti in esso contenuto non è esaustivo ed ha un valore puramente indicativo, poiché lo stesso Allegato “A) – Parte 1” comprende due voci residuali capaci di includere qualsiasi sostanza od oggetto, da qualunque attività prodotti.
Il secondo elemento, collegato all’atteggiamento del detentore, è relativo alle tre diverse previsioni del concetto di “disfarsi”.
Nozione che può essere più ampiamente interpretata alla luce delle numerose pronunce della Corte Europea di Giustizia le cui decisioni (siano esse di condanna per inadempimento dello Stato oppure interpretative del diritto comunitario) sono (vedi Corte Cost: n. 113/1985 e nn. 232 e 389 del 1989) immediatamente e direttamente applicabili in Italia. In particolare basta richiamare le sentenze 28.3.1990, nelle cause riunite Vessoso e Zanetti; 25 giugno 1997, in proc. 304/94 Tombesi; 15.6.2000, in proc. 418 e 419/1997 Arco; 18.4.2002, Palin Granit Oy; e da ultimo la decisione 11 settembre 2003, AvestaPolarit Chrome Oy. Le ultime 2 sentenze citate riguardano, rispettivamente i residui della lavorazione di una cava a cielo aperto di granito e una miniera in cui viene estratto come minerale utile il cromo (in quest’ultimo caso, lo sterile di coltivazione viene man mano estratto ed accumulato in superficie)
Con la sentenza 18.4.2002, Palin Granit Oy, si ribadisce che “la nozione di rifiuto non può essere interpretata in senso restrittivo”, tenendo conto che “la politica della Comunità in materia ambientale mira a un elevato livello di tutela ed è fondata in particolare sui principi della precauzione e dell’azione preventiva”. Argomenta la Corte “che un bene, un materiale o una materia prima, che deriva da un processo di fabbricazione o di estrazione e che non è principalmente destinato a produrlo, può costituire non tanto un residuo quanto un sottoprodotto, del quale l’impresa non ha intenzione di disfarsi ai sensi dell’art. 1, lett. a), c. 1, della direttiva 75/442, ma che essa intende sfruttare o commercializzare a condizioni per lei favorevoli, in un processo successivo, senza operare trasformazioni preliminari”. Secondo la Corte di Giustizia, una situazione del genere “non contrasterebbe con le finalità della direttiva 75/442. In effetti non vi sarebbe alcuna giustificazione per assoggettare alle disposizioni di quest’ultima, che sono destinate a prevedere lo smaltimento o il recupero dei rifiuti, beni, materiali o materie prime che dal punto di vista economico hanno valore di prodotti, indipendentemente da qualsiasi trasformazione, e che, in quanto tali, sono soggetti alla normativa applicabile a tali prodotti. Tuttavia, tenuto conto dell’obbligo di interpretare in maniera estensiva la nozione di rifiuto, per limitare gli inconvenienti o i danni dovuti alla loro natura, occorre circoscrivere tale argomentazione, relativa ai sottoprodotti, alle situazioni in cui il riutilizzo di un bene, di un materiale o di una materia prima sia non solo eventuale, ma certo, senza trasformazione preliminare e nel corso del medesimo processo di produzione. Appare quindi evidente che, oltre al criterio derivante dalla natura o meno di residuo di produzione di una sostanza, il grado di probabilità di riutilizzo di tale sostanza, senza operazioni di trasformazione preliminare, costituisce un secondo criterio utile ai fini di valutare se essa sia o meno un rifiuto ai sensi della direttiva 75/442. Se, oltre alla mera possibilità di riutilizzare la sostanza, il detentore consegue un vantaggio economico nel farlo, la probabilità di tale riutilizzo è alta. In un’ipotesi del genere la sostanza in questione non può più essere considerata un ingombro di cui il detentore cerchi di disfarsi, bensì un autentico prodotto”. La Corte di Giustizia è giunta così ad affrontare esplicitamente la questione della distinzione tra prodotti e rifiuti ed i criteri per operare una distinzione siffatta sono stati individuati nell’assenza di operazioni di trasformazione preliminare (che equivale al trattamento preventivo previsto dall’art. 14 del D. L. n. 138) e nella certezza del riutilizzo senza recare pregiudizio all’ambiente.
Peraltro la Corte di Giustizia delle Comunità Europee (Sez. II 11 novembre 2004, C-475/02, Niselli) ha escluso in modo assoluto che possano ricomprendersi tra i sottoprodotti, di cui il detentore non intende disfarsi, i residui di consumo (o di produzione), atteso che questi non costituiscono materiali o materie prime derivanti da un processo di fabbricazione o di estrazione destinato principalmente a produrlo; pertanto la Corte ha affermato come non sia consentito escludere dalla nozione di rifiuto ogni residuo di produzione o di consumo per il solo fatto che esso possa essere riutilizzato in un qualunque ciclo di produzione o di consumo, vuoi in assenza di trattamento preventivo e senza arrecare danno all’ambiente, vuoi previo trattamento ma senza che occorra tuttavia un’operazione di recupero ai sensi dell’allegato II B della direttiva 75/442 (trasfusa nel D.Lgs. 22 /1997). Il problema visto come insuperabile dalla Corte europea risiede nel fatto che nel caso della cava di granito la destinazione dei residui di lavorazione della pietra non solo non è certa e senza trattamenti preliminari ma è anche rimandata nel tempo, avendo la direzione della cava previsto un utilizzo dei tali residui per massicciate ferroviarie e scogliere: un simile utilizzo, fisiologico, richiede però un trattamento preliminare (poco o tanto che sia) ma soprattutto viene meno il riutilizzo nell’ambito dello stesso identico processo produttivo ed in sostanza, al fine di evitare accumuli di residui per lungo tempo sussiste l’obbligo del “disfarsi” di essi, in quanto rifiuti a tutti gli effetti, inviandoli a recupero.
L’invio ad un impianto di recupero di residui la cui pericolosità peraltro è totalmente esclusa, come è ovvio, implica un passaggio intermedio e relativi costi che, a quanto pare, non interessano al giudice europeo.
Quanto alla miniera di cromo (causa Avesta Polarit), dal momento che una parte dello sterile viene utilizzato di nuovo in parte per sostenere i vuoti sotterranei (in gergo minerario si ha a che fare con la ripiena sciolta che sostenendo i vuoti che si sono venuti a creare permette la coltivazione a profondità maggiori). Naturalmente non tutto lo sterile può essere usato a tal fine e, venendo in essere il “disfarsi”, la parte di sterile non usata nel medesimo ciclo produttivo deve essere inviata, in qualità di rifiuto, a recupero o a smaltimento.
5. LA REVISIONE DELL’ART. 186 (CONSIGLIO DEI MISTRI DEL 12.10.06)
Il Consiglio dei Ministri ha approvato il 12 ottobre 06, in prima lettura, un decreto legislativo che traccia le prime modifiche alle parti III (acque) e IV (rifiuti) del Dlgs 152/2006 e viene modificato così l’art. 186:
a) Le terre e rocce da scavo, anche di gallerie, ottenute nel corso di attività edificatorie e di costruzione di infrastrutture, possono essere utilizzate per reinterri, riempimenti e rilevati nell’ambito del medesimo processo produttivo purché vi sia certezza dell’utilizzo senza necessità di preventivo trattamento e sia garantito un elevato livello di tutela ambientale, nel rispetto delle condizioni di cui al presente articolo.
b) La certezza dell’integrale utilizzo può ritenersi dimostrata nel caso in cui il progetto dell’intervento principale sottoposto a valutazione di impatto ambientale contenga apposite previsioni in relazione all’utilizzo di terre e rocce da scavo.
c). Qualora il progetto dell’intervento principale non sia sottoposto a valutazione di impatto ambientale, le modalità di utilizzo delle terre e rocce da scavo devono formare oggetto di apposito progetto esecutivo comprensivo dell’attività analitica di cui al comma 6, che deve essere approvato dall’autorità amministrativa competente, previo parere delle Agenzie regionali e delle province autonome per la protezione dell'ambiente.
d). Il parere di cui al comma 3 deve essere reso nel termine perentorio di trenta giorni, decorsi i quali provvede in via sostitutiva la regione, entro i successivi trenta giorni.
6. CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
L ’art. 186, DLgs 152/2006, riprende ed amplia quanto visto ai c. da 17 a 19, art. 1, legge Lunardi, ma i nodi cruciali restano, in particolare restano le contrapposizioni tra il diritto comunitario e quello interno.
Brevemente i passi “leciti ”, secondo il diritto comunitario, si possono così riassumere: Una “cosa ” di cui il produttore/detentore “si disfi ” e che può essere recuperata attraverso procedure semplificate (art. 31-33, DLgs 22/97) o procedure autorizzatorie più complesse (artt. 27 e 28, DLgs citato) è un rifiuto; il trasporto di tale rifiuto è un ’operazione di gestione dei rifiuti (da condursi nel rispetto delle direttive Ue; il conferimento ad azienda di recupero deve avvenire nell ’osservanza delle regole di gestione e tutto ciò fino alla “nascita ” di una nuova “materia prima. ”
Vi è una sola “deroga ”, se così la si può definire: qualora di tale “cosa ” il produttore non “si disfi ” bensì la riutilizzi tal quale e senza alcun trattamento nello stesso processo produttivo e ciò avvenga non in un tempo futuro non ben determinabile ma ora e comunque nella sequenza dei medesimi ordinari processi produttivi ecco che si esce dalla nozione di rifiuto e la “cosa ” è una merce/prodotto/bene, che dir si voglia.
Venendo ai passi “illeciti ”, sempre secondo il diritto comunitario, i rifiuti vengono inviati dall’azienda produttrice - che li qualifica come merci o prodotti - ad altra azienda ove sono oggettivamente ed effettivamente riutilizzati in analogo o diverso ciclo di produzione o di consumo sia che subiscano o non subiscano alcun intervento preventivo di trattamento e senza che si renda necessaria alcuna operazione di recupero tra quelle individuate nell'allegato C (operazioni di recupero) al decreto Ronchi. In tal modo non si configura un trasporto di merci dall’azienda che li ha prodotti ad un ’azienda comunque autorizzata (in modo semplificato o non) alle operazioni di recupero bensì si ha un trasporto di rifiuti (senza formulario che li identifichi come tali) ad un ’altra azienda che li riceve/acquista come materia prima/prodotti. Così facendo, una quantità considerevole di rifiuti, non considerati giuridicamente come tali, sfugge al regime dei rifiuti.
Non sfugge quanto il dettato comunitario sia distante dalla realtà in cui si trovano concretamente ad operare le aziende: chi parla di possibilità di riutilizzo di tali materiali nello stesso processo produttivo, e questo comunque e sempre pena l’invio degli stessi a recupero, non ha molta dimestichezza con le problematiche operative, tecniche ed economiche sottese alle operazioni di scavo sia a cielo aperto sia in sotterraneo.
Le terre e rocce di scavo dovrebbero trovare una regolamentazione loro propria e soprattutto non ambigua: tali materiali derivano da attività edile, mineraria di prima e seconda categoria e dalla scavo di gallerie. A tal riguardo, si rimanda al documento APAT “Indirizzi guida per la gestione delle terre e rocce da scavo ” alla cui stesura hanno partecipato le Agenzie per la Protezione dell’Ambiente regionali e provinciali e l’Istituto Superiore di Sanità. Il rapporto, non ha lo scopo di mettere d ’accordo diritto interno e diritto comunitario ma è un lavoro pregevole, molto articolato e ben documentato, che detta indicazioni su come riutilizzare, nel rispetto dell’ambiente tali residui.
Concludendo, tanto per citare uno dei tanti casi, dovrebbe trovare una soluzione di buon senso anche la vexata quaestio dei rottami ferrosi, indispensabili all’industria siderurgica: anche i rottami ferrosi sono considerati rifiuti e prima di essere usati in processi di produzione diversi da quelli che li hanno originati, devono subire tutta la trafila del recupero con tutto quanto ne consegue.