PLUTARCO: L'ARTE DI ASCOLTARE
( http://www.filosofico.net/plutarcarteascoltare.htm )
1.
Ti invio, caro Nicandro la stesura del discorso da me tenuto su come si ascolta, perché tu sappia disporti in modo corretto all'ascolto di chi si rivolge a le con la voce della persuasione, ora che hai indossato la toga virile e ti sei liberato da chi ti dava ordini1. Questa condizione di «anarchia», che alcuni giovani, ancora immaturi sul piano formativo, sono portati a confondere con la libertà, fa sì che le passioni, quasi fossero sciolte dai ceppi, diventino per loro padroni più duri dei maestri e dei pedagoghi di quando erano ragazzi2. Insieme con la tunica, dice Erodoto, le donne si spogliano anche del pudore3: così ci sono giovani che nell'atto stesso di deporre la toga puerile, depongono anche ogni senso di pudore e di rispetto, e sciolto l'abito che li teneva composti si riempiono subito di sregolatezza. Tu, invece, che in più occasioni hai avuto modo di ascoltare che seguire Dio ed obbedire alla ragione sono la stessa cosa, devi pensare che; il passaggio dalla fanciullezza all'età adulta, per quelli che ragionano bene, non significa non aver più un'autorità cui sottostare, ma semplicemente cambiarla, perché al posto di una persona stipendiata o di uno schiavo essi assumono a guida divina dell'esistenza la ragione. Quella ragione, i cui seguaci è giusto ritenere i soli uomini liberi, dato che solo loro hanno imparato a volere ciò che si deve e perciò stesso vivono come vogliono. Ignobile, invece, meschino ed esposto a grandi rimorsi, è l'arbitrio che si esplica negli impulsi e nelle azioni che nascono da immaturità e falsi ragionamenti.
2.
I cittadini naturalizzati che provengono da un altro paese e sono in tutto e per tutto stranieri assumono atteggiamenti critici e insofferenti nei riguardi di molte usanze locali, mentre chi vi viene dalla condizione di meteco, per il fatto di essere cresciuto in familiarità e dimestichezza con quelle leggi, ne accetta gli obblighi senza difficoltà e vi ottempera volentieri4: così tu, che per molto tempo sei cresciuto a contatto con la filosofia e fin dall'inizio sei stato abituato a prendere misto al ragionamento filosofico tutto ciò che hai appreso e ascoltato da ragazzo, devi accostarti con animo ben disposto, come uno di casa, alla filosofia, che è la sola a rivestire i giovani dell'abito virile e realmente perfetto che viene dalla ragione.
Penso comunque che non ti dispiacerà ascoltare qualche preliminare osservazione sul senso dell'udito, che, a detta di Teofrasto, è esposto più di ogni altro alle passioni, dato che non c'è niente che si veda, si gusti o si tocchi, che produca sconvolgimenti, turbamenti o sbigottimenti paragonabili a quelli che afferrano l'anima quando l'udito è investito da certi frastuoni, strepiti o rimbombi. Ma a ben guardare esso ha più legami con la ragione che con la passione, perché se è vero che molte sono le zone e le parti del corpo che offrono al vizio una via d'accesso per cui arriva ad attaccarsi all'anima, per la virtù l'unica presa è data invece dalle orecchie dei giovani, sempreché siano pure e tenute fin dall'inizio al riparo dai guasti dell'adulazione e dal contagio di discorsi cattivi. Per questo Senocrate invitava ad applicare i paraorecchi ai ragazzi più che ai lottatori, perché a questi ultimi i colpi sfigurano le orecchie, mentre ai primi i discorsi distorcono il carattere. Egli non intendeva, comunque che dovessero porsi in una sorta di isolamento acustico o diventare sordi: consigliava solo di proteggerli dai discorsi cattivi prima che altri buoni, come guardie allevate dalla filosofia a protezione del carattere, non ne avessero saldamente occupato la postazione più precaria e maggiormente esposta alla voce della persuasione. L'antico Biante, quando Amasi gli chiese di inviargli la porzione di vittima sacrificale che a suo giudizio fosse migliore e al tempo stesso peggiore, ne recise la lingua e gliela mandò, intendendo dire che nella parola sono insiti i danni e i vantaggi più grandi. La maggior parte delle persone, quando bacia teneramente i propri piccoli, ne prende le orecchie tra le mani e li invita a fare altrettanto, con scherzosa allusione al fatto che essi devono amare soprattutto chi fa loro del bene attraverso le orecchie5. È evidente che un giovane che fosse tenuto lontano da qualunque occasione di ascolto e non assaporasse nessuna parola, non solo rimarrebbe completamente sterile e non potrebbe germogliare verso la virtù, ma rischierebbe anche di essere traviato verso il vizio, facendo proliferare molte piante selvatiche dalla sua anima, quasi fosse un terreno non smosso ed incolto. Le pulsioni verso il piacere e le diffidenze verso la fatica sono sorgenti per così dire native, e non esterne o fatte affluire in noi dalle parole, di infinite passioni e malattie, e se sono lasciate libere di riversarsi dove natura le guida e non si provvede a frenarle con buoni ragionamenti, bloccandone o deviandone il naturale fluire, non c'è belva che non possa apparire più mansueta di un uomo.
3.
Dal momento dunque che l'ascolto comporta per i giovani un grande profitto ma un non minore pericolo, credo sia bene riflettere continuamente, con se stessi e con altri, su questo tema. I più invece, a quanto ci è dato vedere, sbagliano, perché si esercitano nell'arte di dire prima di essersi impratichiti in quella di ascoltare, e pensano che per pronunciare, un discorso ci sia bisogno di studio e di esercizio, ma che dall'ascolto, invece, possa trarre profitto anche chi vi s'accosta in modo improvvisato. Se è vero che chi gioca a palla impara contemporaneamente a lanciarla e riceverla, nell'uso della parola, invece, il saperla accogliere bene precede il pronunciarla, allo stesso modo in cui concepimento e gravidanza vengono prima del parto. I parti e i travagli «di vento» delle galline si dice diano origine a gusci imperfetti e privi di vita6: così realmente «di vento» è il discorso che esce da giovani incapaci di ascoltare e disabituati a trarre profitto attraverso l'udito, e
oscuro ed ignoto, si disperde sotto le nubi7.
Quando travasa qualcosa, la gente inclina e ruota i vasi perché l'operazione riesca bene e non ci siano dispersioni, mentre, quando ascolta un filosofo, non impara ad offrire se stessa a chi parla e a seguire attentamente, perché non le sfugga nessuna affermazione utile. E quel che è più ridicolo è che se incontrano uno che racconta di un banchetto, di un corteo, di un sogno o dell'alterco avuto con un altro, restano ad ascoltarlo in silenzio e insistono per saperne di più; ma se uno li tira da parte e vuol dare loro un insegnamento utile, spronarli a qualche dovere, redarguirli in caso di errore o addolcirli quando sono irritati non lo sopportano e se ne hanno la possibilità si sforzano d'averla vinta e si mettono a controbattere le sue parole o, se proprio non ce fanno, lo piantano in asso e vanno alla ricerca di altri insulsi discorsi, riempiendosi le orecchie, quasi fossero vasi difettosi e incrinati, di qualunque cosa piuttosto che di ciò di cui hanno bisogno. I bravi allevatori rendono sensibile al morso la bocca dei cavalli: così i bravi educatori rendono sensibili alle parole le orecchie dei ragazzi insegnando loro non a parlare molto, ma ad ascoltare molto. Nel tessere gli elogi di Epaminonda, Spintaro diceva che non era facile incontrare uno che sapesse di più e parlasse di meno. E la natura, si dice, ha dato a ciascuno di noi due orecchie ma una lingua sola, perché siamo tenuti ad ascoltare più che a parlare.
4.
Il silenzio, dunque, è ornamento sicuro per un giovane in ogni circostanza, ma lo è. in modo particolare quando, ascoltando un altro, evita di agitarsi o di abbaiare ad ogni sua affermazione, e anche se il discorso non gli è troppo gradito, pazienta ed attende che chi sta disertando sia arrivato alla conclusione; e non appena ha finito si guarda dall'investirlo subito di obiezioni, ma, come dice Eschine8, lascia passare un po' di tempo per consentire all'altro di apportare eventuali integrazioni o di rettificare e sopprimere qualche passaggio. Chi si mette subito a controbattere finisce per non ascoltare e non essere ascoltato, e interrompendo il discorso di un altro rimedia una brutta figura. Se invece ha preso l'abitudine di ascoltare in modo controllato e rispettoso, riesce a recepire e a far suo un discorso utile e sa discernere meglio e smascherare l'inutilità o falsità di un altro, e per di più dà di sé l'immagine di una persona che ama la verità e non le dispute, ed è aliena dall'essere avventata o polemica9. Non è sbagliato quello che dicono alcuni, e cioè che se si vuole versare qualcosa di buono nei giovani bisogna prima sgonfiarli più di quanto non si faccia con l'aria contenuta negli otri, di ogni presunzione e albagia, perché altrimenti, pieni come sono di alterigia e di boria, non riuscirebbero ad accogliere nulla.
5.
L'invidia poi, congiunta a malizia e livore, non va bene in nessun caso, e se la sua presenza ostacola ogni retto comportamento, diventa pessima assistente e consigliera di chi ascolta, perché gli rende fastidiose, sgradevoli e inaccettabili le osservazioni utili, dato che gli invidiosi godono di qualunque altra cosa piuttosto che di quelle dette bene. Eppure chi si sente mordere dalla ricchezza, la fama o la bellezza di un altro è solo invidioso, in quanto lo tormenta la felicita altrui: chi invece soffre nel sentire un discorso giusto è infastidito dai suoi stessi beni, perché come la luce è un bene per chi può vedere, così un discorso lo è per chi può udire, sempreché lo voglia accogliere.
Ma se negli altri casi l'invidia nasce da certe disposizioni rozze e malvagie, quella rivolta contro chi parla muove da inopportuno esibizionismo e mala ambizione e non consente a chi si trova in questo stato d'animo di concentrarsi su ciò che viene detto, ma ne disturba e distrae la mente, che ora si mette ad osservare se le proprie capacita siano inferiori a quelle di chi sta parlando e ora invece si sofferma a guardare se gli altri seguano compiaciuti ed ammirati, e si sente urtata dagli assensi e si indispettisce con i presenti se mostrano di gradire chi parla. E quanto ai discorsi, essa lascia cadere in oblio quelli già pronunciati, perché rammentarli è una sofferenza, e si agita e trema al pensiero che quelli successivi possano essere ancora migliori; non vede l'ora che chi sta tenendo un discorso bellissimo abbia terminato di parlare, e appena l'ascolto è finito non ripensa a niente di quel che è stato detto, ma si mette a contare come fossero voti, le esclamazioni e gli umori dei presenti, e fugge e schizza via come impazzita da chi approva, correndo ad imbrancarsi con chi solleva critiche e distorce le argomentazioni svolte; se poi non c'è niente da distorcere, tira fuori che altri hanno saputo sviluppare meglio lo stesso tema e con maggior efficacia, fino a quando, a forza di svilire e infangare, non si sia reso l'ascolto inutile e vano.
6.
Perciò, stipulata una tregua tra voglia di ascoltare e tentazioni esibizionistiche, dobbiamo disporci all'ascolto con animo disponibile e pacato, come fossimo invitati a un banchetto sacro o alle cerimonie preliminari di un sacrificio, elogiando l'efficacia di chi parla nei passaggi riusciti e apprezzando perlomeno la buona volontà di chi espone in pubblico le proprie opinioni e cerca di convincere gli altri ricorrendo agli stessi ragionamenti che hanno persuaso lui. Non dobbiamo pensare che gli esiti felici dipendano dalla fortuna o che vengano da soli, ma che siano piuttosto frutto di applicazione, duro lavoro e studio, e perciò, spinti da sentimenti di ammirazione e di emulazione, dovremo cercare di imitarli; in caso di insuccesso, invece, è necessario rivolgere la nostra attenzione alle cause e alle ragioni che l'hanno determinato. Senofonte dice che i bravi padroni di casa sanno trarre profitto dagli amici e dai nemici10: così le persone sveglie e attente sanno trarre beneficio da chi parla non solo quando ha successo ma anche quando fallisce, perché, la pochezza concettuale, la vacuità espressiva, il portamento volgare, la smania, non disgiunta da goffo compiacimento, di consenso e gli altri consimili difetti ci appaiono con più evidenza negli altri quando ascoltiamo che in noi stessi quando parliamo. Dobbiamo perciò trasferire il giudizio da chi parla a noi stessi, valutando se anche noi non cadiamo inconsciamente in qualche errore del genere. Non c'è cosa al mondo più facile di criticare il prossimo, ma è atteggiamento inutile e vano se non ci porta a correggere o prevenire analoghi errori. Di fronte a chi sbaglia non dobbiamo esitare a ripetere in continuazione a noi stessi il detto di Platone: «Sono forse anch'io così?»11. Come negli occhi di chi ci sta vicino vediamo riflettersi i nostri, così dobbiamo ravvisare i nostri discorsi in quelli degli altri, per evitare di disprezzarli con eccessiva durezza e per essere noi stessi più sorvegliati quando arriva il nostro turno di parlare. A tal fine è utile anche ricorrere a un confronto se, una volta finito l'ascolto e rimasti soli, prenderemo qualche passaggio che, a nostro giudizio sia stato trattato in modo maldestro o inadeguato e proveremo a ridirlo noi, volgendoci a colmare una deficienza qui, a correggerne una lì, a esporre lo stesso pensiero con parole diverse o tentando di affrontare l'argomento in maniera radicalmente nuova. Così fece anche Platone con il discorso scritto da Lisia12. Non è difficile muovere obiezioni al discorso pronunciato da altri, anzi è quanto mai facile; ben più faticoso, invece, è contrapporne uno migliore. Alla notizia che Filippo aveva raso al suolo Olinto, lo spartano osservò: «Ma lui non riuscirebbe a riedificare una città così grande!». Se dunque nel dissertare sullo stesso argomento ci sembrerà di non essere molto superiori a chi ne ha trattato, deporremo gran parte del nostro disprezzo e ben presto, smascherati da simili confronti, svaniranno in noi presunzione ed orgoglio.
7.
Antitetico all'atteggiamento denigratorio è quello facilmente incline all'ammirazione, che denota indubbiamente una natura più cordiale e pacata, ma esige anch'esso non poca accortezza, o addirittura ne richiede una maggiore, perché se i denigratori e gli arroganti ricavano da chi parla un profitto minore, gli entusiasti e gli ingenui ne ricevono danni maggiori e non smentiscono il detto eracliteo:
«Lo stupido suole stupirsi a ogni parola»13.
Bisogna essere generosi nell'elogiare chi parla ma cauti nel prestare fede alle sue parole; si deve essere spettatori bendisposti e non prevenuti dello stile e della dizione di chi dibatte, ma critici attenti e severi dell'utilità e veridicità di ciò che dice, per non attirarci l'odio suo e al tempo stesso evitare che le sue parole possano danneggiarci, dato che, senza nemmeno accorgercene, siamo portati ad accogliere in noi molti ragionamenti falsi e cattivi per simpatia o fiducia verso chi parla. Le autorità spartane, sentita la proposta avanzata da un uomo che viveva in modo riprovevole, la approvarono, ma subito ordinarono a un altro, che godeva della stima generale per la sua condotta di vita e moralità, di ripresentarla, cercando in modo davvero corretto e politicamente educativo di abituare il popolo a lasciarsi influenzare dalla statura morale dei consiglieri più che dalle loro parole. Quando invece si tratta di una discussione filosofica dobbiamo lasciar perdere la reputazione di chi parla e valutare esclusivamente il valore intrinseco delle sue argomentazioni. Come in guerra, così anche in un ascolto ci sono molti vani apparati: la canizie, l'intonazione suadente, lo sguardo accigliato e la tendenza all'autoelogio di chi parla, ma soprattutto le acclamazioni, gli applausi e i sobbalzi del pubblico sconcertano l'ascoltatore giovane ed inesperto, che finisce per essere come trascinato via dalla corrente. Anche nello stile c'è qualcosa di ingannevole quando, fluendo seducente e copioso, investe i concetti in modo enfatico e ricercato. Gran parte degli errori commessi da chi canta con l'accompagnamento dell'aulo sfugge a chi ascolta: così uno stile ridonante e pomposo abbacina l'ascoltatore e gli impedisce di intravedere i concetti. Si narra che Melanzio, sentendosi chiedere un parere su una tragedia di Diogene, rispondesse che non gli era riuscito di vederla perché eclissata dalle parole14; così la maggior parte dei sofisti, quando disserta o declama, non si limita ad utilizzare le parole per velare i pensieri, ma addolcendo la voce con modulazioni, morbidezze e trilli, manda in delirio e in visibilio l'uditorio, elargendo un piacere vano e ricevendone in cambio una fama ancora più vana. Sicché calza loro perfettamente quel che si racconta a proposito di Dionisio, che nel corso di un'esibizione aveva promesso grandi ricompense a un famoso citaredo, ma alla fine non gli aveva dato nulla, con la scusa che lui, i suoi impegni, li aveva già onorati: «Perché - gli disse - per tutto il tempo in cui io mi beavo del tuo canto, tu gioivi di speranza». Questo è appunto il compenso che i sofisti ricavano da simili esibizioni: sono ammirati per tutto il tempo in cui riescono a dilettare, ma poi, appena il piacere dell'ascolto e finito, la fama li ha già abbandonati e vanamente hanno sprecato gli altri il tempo, loro addirittura la vita.
8.
Perciò bisogna eliminare dallo stile ogni eccesso e vacuità, mirando esclusivamente al frutto e prendendo a modello le api e non le tessitrici di ghirlande, perché queste, preoccupandosi solo delle fronde fiorite e profumate, intrecciano e intessono una composizione soave ma effimera e infruttuosa, mentre le api, pur volando in continuazione su prati di viole, di rose e di giacinti, vanno a posarsi sul timo, la più acre e pungente delle piante, e vi si fermano
al biondo miele pensando15,
poi attinto qualcosa di utile volano via all'opera loro. Così l'ascoltatore fine e puro deve lasciar perdere le parole fiorite e delicate e pensare che gli argomenti teatrali e spettacolari sono solo «pastura di fuchi»16 sofisticheggianti, ed immergersi invece con la concentrazione fino a cogliere il senso profondo del discorso e la reale disposizione, d'animo di chi parla, per trarne ciò che è utile e giovevole, rammentando a se stesso che non è andato a teatro o in un odeo, ma in una scuola e in un'aula per raddrizzare la propria vita con la parola. Ne consegue la necessità di esaminare e giudicare l'ascolto partendo da se stesso e dal proprio stato d'animo, valutando se qualche passione sia divenuta più debole, qualche fastidio più leggero, se si siano rinsaldati in lui determinazione e volontà, se senta in cuor suo entusiasmo per la virtù e per il bene. Non ha senso, quando ci si alza dalla sedia del barbiere, guardarsi allo specchio e passarsi la mano sul capo, esaminando il taglio dei capelli e la diversa pettinatura, e invece all'uscita da una lezione e dalla scuola non guardare subito in se stessi per apprendere se l'anima abbia deposto qualche peso soverchio e superfluo e sia divenuta più leggera e più dolce. «Se un bagno o un discorso non purificano -dice Aristone- non hanno alcuna utilità!»17,
9.
Goda dunque il giovane quando trae profitto dai discorsi, ma non deve vedere nel diletto lo scopo dell'ascolto e non deve pensare di allontanarsi dalla scuola di un filosofo «canticchiando radioso»18 o cercare di profumarsi quando invece ha bisogno di fomenti e di cataplasmi, ma essere grato se qualcuno ricorre ad acri parole, come con gli alveari ci si serve del fumo, per ripulire la sua mente, che è piena di molta caligine e ottusità. Chi parla, e vero, non deve affatto trascurare che nel proprio stile vi siano piacevolezza e persuasività, ma di questo il giovane non deve minimamente darsi pensiero, almeno in un primo momento. Successivamente forse, come chi beve e solo dopo aver appagato la sete si mette ad osservare le cesellature delle coppe e se le rigira tra le mani, così anche il giovane, dopo essersi riempito di riflessioni e aver ripreso fiato, si volga ad esaminare se lo stile contiene qualche eleganza e raffinatezza. Chi invece non si tiene stretto subito fin dall'inizio ai concetti, ma pretende che lo stile sia attico e sobrio somiglia a uno che rifiutasse di bere un antidoto se la coppa non è di ceramica coliade attica19 o di indossare d'inverno un mantello se la lana non è di pecore attiche, ma siede inerte ed immobile, avvolto, per così dire, nel mantello leggero e sottile del linguaggio di Lisia. Queste fisime hanno prodotto nelle scuole molto deserto di intelletto e di buoni pensieri, molta pedanteria formale e verbosità, dato che gli adolescenti non osservano la vita, le azioni e la condotta pubblica di un nomo che si presenta come filosofo, ma gli ascrivono a lode i lemmi, le frasi, la bravura nell'esposizione, non sapendo e non volendo indagare se ciò che dice sia utile o inutile, se sia indispensabile o al contrario vuoto e superfluo.
10.
A questi precetti segue quello relativo ai quesiti. Quando si è invitati a cena si deve mangiare quello che viene imbandito e non chiedere dell'altro o mettersi a criticare: così chi è andato al banchetto delle parole, se il tema è stabilito, ascolti in silenzio chi parla, perché portandolo a deviare su altri argomenti, interrompendone l'esposizione con continue domande e sollevando sempre nuove difficoltà non risulta né piacevole né garbato come ascoltatore e ottiene di non ricavare personalmente alcun profitto e di confondere insieme chi parla e quello che dice; se invece è chi parla a sollecitare l'uditorio a porre domande e quesiti, si dovrebbe sempre dare a vedere di sollevarne di utili e di necessari. Odisseo è deriso dai pretendenti domandando tozzi di pane, e non spade o lebeti20, perché per loro è segno di grandezza d'animo non solo fare grandi doni, ma anche richiederli. Ancor più, però, si riderebbe di un ascoltatore che sollecitasse chi disserta su questioni piccole e cavillose, come solitamente fanno certi giovani che ricorrendo ad estreme sottigliezze e palesando la propria attitudine per la dialettica o 1a matematica pongono quesiti sulla divisione delle proposizioni indefinite e su quale sia il movimento secondo il lato o secondo la diagonale21. A costoro si può ripetere la risposta data da Filotimo a un uomo settico e macilento, che si era rivolto a lui per chiedergli una curetta contro il giradito; quando dal colorito e dalla respirazione si fu reso conto delle sue condizioni: «Mio caro -gli disse- nel tuo caso non ha senso parlare di giradito». Nemmeno per te, ragazzo mio, è tempo di indagare su problemi di quel genere, ma su come tu possa liberarti da presunzione, alterigia, amori e insulsaggine e costruirti una vita modesta e sana.
11.
Quando si formula una domanda bisogna assolutamente rapportarsi all'esperienza e all'attitudine di chi parla, ponendogli quesiti su di argomenti in cui è più forte di se stesso e evitando di mettere in difficoltà chi è esperto soprattutto di filosofia morale sottoponendogli complicati problemi di fisica o di matematica, e di trascinare al contrario chi vanta conoscenze in campo scientifico a emettere giudizi sulle proposizioni connesse o a risolvere i sofismi «mentitori»22. Chi tentasse di spaccare la legna con una chiave o di aprire la porta con una scure non darebbe l'impressione di screditare quegli strumenti ma piuttosto di rinunciare alla loro propria utilità e funzione: così chi avanza richieste su temi sui quali chi parla non ha attitudine o non si è esercitato, si pone da solo nell'impossibilità di cogliere e ricevere il frutto che l'altro ha ed è disposto ad offrire, e oltre a danneggiare se stesso ottiene anche di essere tacciato di malizia e livore.
12.
Ci si deve inoltre guardare dal porre troppe domande e dall'intervenire in continuazione, perché anche questo atteggiamento denota, in certo qual modo, una volontà esibizionistica. Ascoltare con calma gli interventi di un altro è indizio invece di persona desiderosa di apprendere e rispettosa del prossimo, a meno che uno non senta dentro qualcosa che lo turba e non l'opprima una passione che dev'essere bloccata o un tormento che deve essere lenito. Dice Eraclito che la propria ignoranza è meglio celarla, ma forse è meglio, invece, palesarla e curarla. Se accessi d'ira, attacchi di superstizione, forti contrasti con i familiari o una folle passione d'amore
che tocca della mente le corde da non toccare23,
ci sconvolgono la mente, non bisogna rifugiarsi dove si parla d'altro per non esporci a critiche, ma frequentare le scuole in cui si discute proprio di questi argomenti e dopo la discussione consultare in privato quelli che ne hanno parlato e porre loro ulteriori domande. Non si deve agire insomma come la maggioranza della gente, che ascolta volentieri e ammira i filosofi quando parlano d'altro, ma se poi il filosofo, lasciati perdere gli altri, si rivolge a loro in privato e apertamente menziona ciò che li riguarda, si risentono e lo giudicano un impiccione. Generalmente pensano di dover ascoltare i filosofi nelle scuole come gli attori tragici a teatro e credono che una volta fuori non si comportino per nulla meglio di loro. Questo ragionamento va bene per i sofisti (che una volta scesi di cattedra e riposti libri e prontuari, nella realtà del quotidiano operare appaiono meschini e inferiori ai più), ma nei confronti dei veri filosofi è sbagliato, perché non ci si rende conto che la loro serietà, lo scherzo, un cenno, un sorriso o uno sguardo accigliato e soprattutto le parole rivolte a ciascuno in privato apportano frutto e giovamento a chi ha preso l'abitudine di ascoltarli con pazienza ed attenzione.
13.
Anche il tributare elogi è compito che richiede cautela e senso della misura, perché difetto ed eccesso non si addicono a un uomo libero. Pesante e rozzo è l'ascoltatore che rimane freddo e impassibile di fronte a qualunque riflessione, e pieno di una presunzione incancrenita e di un'autoconsiderazione profondamente radicata, convinto com'è di saper esprimere qualcosa di meglio di quel che sente dire, non batte ciglio, come invece educazione vorrebbe, e non emette sillaba a testimonianza del fatto che sta seguendo volentieri e con interesse, ma se ne resta in silenzio e ostentando una gravità affettata e di maniera cerca di cattivarsi la reputazione di persona di solide e profonde convinzioni, dando a vedere di valutare gli elogi alla stregua del denaro e di pensare che nella proporzione in cui se ne elargiscono agli altri si finisce per privarne se stessi. Molti interpretano in modo erroneo e stonato quella frase di Pitagora, in cui egli disse d'aver tratto dalla filosofia l'incapacità di stupirsi di qualunque cosa: costoro ne hanno ricavato invece il non saper elogiare e apprezzare nulla, con la conseguente assunzione di un atteggiamento sprezzante e l'idea che la dignità nasca dall'alterigia. Ora, è vero che il ragionamento filosofico, grazie al processo conoscitivo e all'informazione sulle cause dei singoli eventi, elimina il senso di meraviglia e di stupore che nasce dal dubbio e dall'ignoranza, ma non annulla certamente garbo, misura e affabilità. Per le persone realmente e coerentemente buone la soddisfazione più alta consiste nel tributare il giusto riconoscimento a chi lo merita, ed effettivamente, non c'è onore più bello del rendere onore a un altro, perché proviene da esuberanza e ricchezza di fama: chi invece è avaro di elogi per gli altri dà l'impressione di esserne lui stesso povero ed affamato.
Opposto d'altro canto è l'atteggiamento di chi, senza il minimo discernimento, ad ogni parola e ad ogni sillaba si sofferma e grida: leggero come un uccello, costui riesce spesso sgradito anche a chi dibatte e fastidioso sempre per gli altri che ascoltano, perché contro voglia li eccita e ti spinge ad imitarlo, quasi che un senso di pudore li trascinasse a forza a fargli da eco. Così, senza aver tratto alcun profitto per aver reso l'ascolto pieno di confusione e di trambusto con i suoi elogi, se ne va portandosi appresso uno di questi tre titoli: ipocrita, adulatore o incompetente, perché questa è l'impressione che ha dato di sé. Chi è chiamato a far da giudice in un processo non deve ascoltare con malanimo o parzialità, ma secondo coscienza, guardando alla giustizia; quando invece si ascolta una discussione filosofica non ci sono leggi o giuramenti che ci impediscano di accogliere con simpatia chi disserta. Anzi, gli antichi collocarono Ermes vicino alle Grazie, volendo significare che un discorso richiede soprattutto grazia e gentilezza24. Non è possibile che chi parla sia in assoluto talmente inetto ed impreciso da non offrire niente che possa essere apprezzato: una riflessione sua, una citazione altrui, l'argomento stesso e lo scopo del discorso, e almeno lo stile o la disposizione della materia,
come tra le ginestre e l'ononide irta di spine spuntano i bucaneve dai delicati fiori25.
C'è chi riesce persuasivo anche tessendo panegirici del vomito, della febbre e, per Zeus!, perfino della pentola26: e come potrebbe allora non dare assolutamente un po' di respiro e non fornire un'occasione di elogio, ad ascoltatori benevoli e garbati, il discorso pronunciato da chi in un modo o nell'altro gode fama o nome di filosofo? I giovani in fiore, come dice Platone, eccitano sempre, in un modo o nell'altro, 1e nature sensuali: se sono di carnagione chiara, li chiamano «figli degli Dei», se sono bruni «virili»; a un naso aquilino danno l'eufemistico nome di «regale», a uno camuso di «grazioso»; un colorito giallastro diventa per loro del «colore del miele», e così tutti li baciano e li amano perché l'amore, come l'edera, è abile ad avvincersi con qualsiasi scusa27. A maggior ragione, dunque, chi si diletta di ascoltare e ama i discorsi seri saprà sempre trovare; qualche elemento in base al quale apparirà elogiare motivatamente ogni singolo oratore. Platone, ad esempio, pur disapprovando l'invenzione nell'orazione di Lisia e criticandone la disposizione, ne elogia comunque lo stile e afferma che in lui «ogni parola è chiara e rotondamente tornita»28. Si potrebbero biasimare i temi di Archiloco29, la versificazione di Parmenide30, la semplicità di Focilide31, la verbosità di Euripide32, la discontinuità di Sofocle33, così come senza dubbio tra gli oratori c'è chi non sa ritrarre i caratteri, chi è fiacco nel destare emozioni, chi è privo di grazia: ciò nonostante ciascuno di loro viene elogiato per la peculiarità delle doti naturali che gli consentono di far presa e trascinare. Anche all'ascoltatore, quindi, è data facile ed ampia possibilità di mostrarsi cordiale con chi parla: ad alcuni basta, anche se non aggiungiamo la testimonianza della voce, offrire uno sguardo mite, un volto pacato, una disposizione benevola e non annoiata.
Per concludere, ecco alcune norme di comportamento, per così dire generali e comuni, da seguire sempre in ogni ascolto, anche in presenza di un'esposizione completamente fallita: stare seduti a busto eretto, senza pose rilassate o scomposte; lo sguardo dev'essere fisso su chi sta parlando, con un atteggiamento di viva attenzione; l'espressione del volto dev'essere neutra e non lasciar trasparire non solo arroganza o insofferenza ma persino altri pensieri e occupazioni. In ogni opera d'arte, si sa la bellezza deriva, per così dire, da molteplici fattori che per una consonanza misurata e armonica pervengono a una proporzionata unita, mentre basta una semplice mancanza o un'aggiunta fuori posto per dare subito vita alla bruttezza: analogamente, quando si ascolta, non solo sono sconvenienti l'arroganza di una fronte corrugata, la noia dipinta sul viso, lo sguardo che vaga qua e là, la posizione scomposta del corpo e le gambe accavallate, ma sono da censurare, e richiedono molta circospezione, persino un cenno o un bisbiglio con un altro, un sorriso, gli sbadigli sonnacchiosi, lo sguardo fisso a terra e qualunque altro atteggiamento del genere.
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Altri pensano che chi parla abbia dei doveri da assolvere e chi ascolta, invece, nessuno; pretendono che quello si presenti dopo aver meditato ed essersi preparato con cura, mentre loro invadono la sala liberi da ogni pensiero e riflessone. Eppure se persino n bravo convitato ha dei doveri da assolvere, molti di più ne ha chi ascolta, perché è coinvolto nel discorso ed è chiamato a cooperare con chi parla, e non è giusto che stia ad esaminarne con severità le stonature e a vagliarne criticamente ogni parola e ogni gesto, mentre lui, senza doverne rispondere, si abbandona per tutta la durata dell'ascolto a un contegno scomposto e variamente scorretto. Quando si gioca a palla le mosse di chi riceve devono essere in sintonia con quelle di chi lancia: così in un discorso c'è sintonia tra chi parla e chi ascolta se entrambi sono attenti ai loro doveri34.
15.
Nel manifestare il proprio assenso, bisogna guardarsi dall'usare le prime parole che vengono in mente. Quando Epicuro, ad esempio, riferendosi alle le lettere di alcuni amici, dice che ne sente scaturire un fragore di applausi, ci riesce stucchevole35: così chi ai nostri giorni introduce nelle sale dove parlano i filosofi epiteti stravaganti come «divino!», «ispirato!», «inarrivabile!», quasi non bastassero più i «bene!» «bravo!», «giusto!», con cui abitualmente manifestavano la propria approvazione i discepoli di Platone, di Isocrate o di Iperide, tiene un comportamento oltremodo sconveniente e finisce per gettare cattiva luce su chi parla, suggerendo l'impressione che questa richiesta di elogi superbi e straordinari nasca da lui. Davvero fastidioso poi è chi ricorre al giuramento, come, fosse in tribunale, per testimoniare la propria approvazione nei confronti di chi parla, e non meno lo sono quelli che sbagliano la mira nel riferirsi alle qualità della persona e a un filosofo gridano «che sottigliezza!», a un vecchio «che grazia!» o «che fiore!», trasferendo ai filosofi gli epiteti che si usano con chi ama giochi e sfoggi di eloquenza nelle esercitazioni scolastiche, o attribuendo a un discorso saggio elogi degni di una prostituta: è come se si volesse cingere il capo di un atleta con una corona di gigli o di rose e non di alloro o di oleastro! Il poeta Euripide stava suggerendo ai suoi coreuti un passaggio lirico nel modo musicale prescelto, quando uno di loro scoppiò a ridere: «Se tu non fossi insensibile ed ignorante -gli disse- non rideresti nel vedermi cantare in misolidio»36; così credo che un filosofo o un uomo politico potrebbero troncare le intemperanze di un ascoltatore disinvolto dicendogli: «Tu mi sembri folle e maleducato, perché altrimenti, mentre io sto insegnando o ammonendo o dissertando sugli Dei, sullo Stato o su una carica pubblica, tu non ti metteresti a canticchiare e danzare al ritmo delle mie parole. Prova a pensare in quale confusione si verrebbero a trovare i passanti se sentissero urla e schiamazzi provenire dalla sala dove sta parlando un filosofo: si chiederebbero imbarazzati se quegli applausi non siano rivolti a un auleta, un citaredo o un danzatore37.
16.
Moniti e rimproveri, a loro volta, non si devono ascoltare con indifferenza o viltà. Chi resta calmo e impassibile nel sentirsi redarguire da un filosofo, al punto che sorride e riserva parole d'elogio a chi lo biasima, si comporta come i parassiti che di fronte agli insulti di chi li mantiene, nella totale sfacciataggine e sfrontatezza che li caratterizza, danno con la loro impudenza un saggio di virilità non bello né schietto. Accettare senza irritazione e con un sorriso una battuta priva di insolenza, pronunciata per scherzo e con arguzia, non è un comportamento ignobile o grossolano, ma al contrario liberale e conforme al costume laconico. Ascoltare invece una rampogna e un monito rivolti a raddrizzare il carattere, che ricorrono a una parola di biasimo come a un medicamento che brucia, senza farsi piccolo piccolo, imperlarsi di sudore sentirsi girare la testa e avvampare di vergogna nell'anima, ma restando indifferente e con un ghigno beffardo e ironico dipinto sul volto, è proprio di un giovane profondamente abbietto e insensibile ad ogni forma di pudore per inveterata abitudine agli errori, la cui anima, quasi fosse una carne dura e callosa, non riceve lividi.
Così si comportano dunque i giovani di questo tipo. Quelli di indole opposta, invece, anche se sono ripresi una sola volta, scappano via senza volgersi indietro e fuggono lontano dalla filosofia: così, pur avendo ricevuto dalla natura il senso del pudore come bel principio di salvezza, lo gettano via per la loro delicatezza e mollezza, non riuscendo a mantenersi saldi davanti ai rimproveri e ad accettare gli emendamenti con la giusta forza d'animo, e finendo invece per porgere l'orecchio ai melliflui e molli discorsi di certi adulatori o sofisti, che incantano con la loro voce melodiosa ma priva di utilità e di giovamento. Se al termine di un'operazione uno fugge via dal medico e non vuole che gli bendi la ferita, accetta il dolore dell'intervento ma non attende l'effetto benefico della cura: così chi non offre alla parola, che ha inciso e ferito la sua stoltezza, la possibilità di cicatrizzare e rimarginare, si allontana dalla filosofia morso e sofferente, ma privo di qualunque reale beneficio. Perché non solo la piaga di Telefo
è guarita dalla minuta limatura della lancia,
come dice Euripide38, ma anche il morso che la filosofia imprime nei giovani di indole buona è risanato dalla stessa parola che provocò la ferita. Perciò è necessario che chi viene ripreso accetti questa sofferenza e si lasci mordere senza restarne oppresso e accasciato, ma come in una cerimonia iniziatica a cui lo ha introdotto la filosofia, dopo avere sopportato le prime purificazioni e i primi travagli, speri un po' di dolcezza e di luce dopo l'inquietudine e il turbamento di quei momenti. In realtà, persino nel caso in cui la critica gli sembri immeritata, è bene che non si freni e resti, mentre l'altro parla, in paziente attesa: poi, quando ha finito, deve andare da lui per esporre le proprie argomentazioni e pregarlo di riservare quella franchezza e quel tono appena usati contro di lui per qualche sua reale mancanza.
17.
Quando s'incomincia a leggere e a scrivere, a suonare la lira o a frequentare una palestra, le prime lezioni comportano notevole confusione, fatica e oscurità, ma poi, mano a mano che si va avanti, si instaurano a poco a poco, come avviene nei rapporti interpersonali, una grande familiarità e conoscenza, che rendono ogni cosa gradita, agevole e facile da dire e da fare. Così capita anche con la filosofia: i primi approcci con il suo linguaggio e le sue tematiche danno la sensazione di inoltrarsi su un terreno scivoloso e inconsueto, ma non per questo si deve subito sentirsene intimoriti e rinunciare, intimiditi e scoraggiati; bisogna, al contrario, affrontare i vari ostacoli e con perseveranza e desiderio di procedere oltre, attendere che insorga quella familiarità che rende dolce ogni cosa bella. E questa, in realtà, non tarderà molto a prodursi e a riversare sui nostri studi una luce grande, ingenerando un ardente amore per la virtù. Davvero miserabile e vile è chi accettasse di trascorrere il resto della propria esistenza senza questo amore, dopo aver disertato la filosofia per pusillanimità.
I temi trattati dalla filosofia possono forse presentare all'inizio qualche aspetto di difficile intelligibilità per gli inesperti e per i giovani, ma ciò non toglie che la responsabilità di ciò che in massima parte appare oscuro e incomprensibile ricada proprio su di loro, dato che, indipendentemente dall'avere temperamenti opposti, essi finiscono per commettere lo stesso errore. Gli uni, infatti, per pudore e ritegno, esitano a porre domande a chi parla e ad assicurarsi del senso reale delle sue parole, e fanno cenni d'assenso, dando ad intendere, di averle assimilate bene; gli altri, a1 contrario, spinti da inopportuna ambizione e vano spirito di competizione verso i compagni, cercano di dimostrare la propria acutezza e capacità di apprendimento, e dichiarando di aver capito prima di avere compreso finiscono per non comprendere un bel niente. Poi, a chi si vergognava e se n'era stato in silenzio, capita che una volta lasciata l'aula se la prende con se stesso e non sa che fare, e alla fine, costretto dalla necessità, torna sui suoi passi e con accentuato senso di vergogna tormenta chi ha parlato con una domanda dopo l'altra e non lo molla più, mentre gli ambiziosi e presuntuosi continuano a nascondere e dissimulare l'ignoranza che alberga dentro di loro.
18.
Lasciamo perdere dunque simili forme di stupidità o millanteria e pur di apprendere e assimilare le riflessioni utili accettiamo anche le risatine di chi vuol dare a vedere di essere intellettualmente dotato, come fecero Cleante e Senocrate, che in apparenza erano più lenti dei compagni, ma in realtà non demordevano dall'apprendere e non si smarrivano d'animo, ed erano anzi i primi a prendersi in giro, paragonandosi a vasi dall'imboccatura stretta o a tavolette di bronzo, alludendo al fatto che facevano fatica ad accogliere le parole, ma poi le conservavano in modo saldo e sicuro39. Perché non solo, come dice Focilide,
spesso deve subire delusioni chi aspira alla virtù,
ma spesso deve accettare anche di essere; deriso e schernito, e sopportare canzonature e volgarità pur di eliminare con tutto se stesso la propria ignoranza ed abbatterla.
Non bisogna trascurare, d'altra parte, nemmeno l'errore contrario, che taluni commettono per indolenza, col risultato di rendersi sgradevoli e fastidiosi: quando sono per conto loro non vogliono scomodarsi, ma poi disturbano chi parla sottoponendogli in continuazione domande sugli stessi argomenti, come uccellini implumi che stanno sempre a bocca aperta verso l'altrui bocca e vogliono ricevere da altri ogni cosa ormai pronta e predigerita. C'è poi chi aspira a guadagnarsi la fama di persona attenta e acuta dove non è il caso, e sfinisce chi parla a forza di chiacchiere e di curiosità, sollevando in continuazione quesiti non necessari o chiedendo spiegazioni su argomenti che non ne hanno alcun bisogno:
così strada corta diventa lunga,
come dice Sofocle40, e non solo per loro, ma anche per gli altri. Interrompendo in continuazione il maestro con domande vane e superflue, come in un viaggio in compagnia, non fanno che intralciare l'andamento regolare dell'apprendimento, che subisce fermate e ritardi. Questi tali somigliano, secondo Ieronimo, a quei cagnolini vili e insistenti, che in casa mordono le pelli delle fiere e ne strappano il vello, mentre se queste fossero vive si guaderebbero bene dal toccarle41. Dobbiamo esortare i pigri di cui parlavamo a mettere insieme il resto da soli, una volta che l'intelligenza abbia fatto loro comprendere i punti essenziali, tenendo a mente quanto hanno ascoltato perché sia loro da guida nel proseguimento della ricerca e accogliendo la parola altrui come principio e seme da sviluppare ed accrescere. La mente non ha bisogno, come un vaso, di essere riempita, ma piuttosto, come legna, di una scintilla che l'accenda e vi infonda l'impulso della ricerca e un amore ardente per la verità. Come uno che andasse a chiedere del fuoco ai vicini, ma poi vi trovasse una fiamma grande e luminosa e restasse là a scaldarsi fino alla fine, così chi si reca da un altro per prendere la sua parola ma non pensa di dovervi accendere la propria luce e la propria mente, e siede incantato a godere di ciò che ascolta, trae dalle parole solo un riflesso esterno, come un volto che s'arrossa e s'illumina al riverbero della fiamma, senza riuscire a far evaporare e scacciare dall'anima, grazie alla filosofia, quanto vi è dentro di fradicio e di buio.
Se è necessario qualche altro consiglio per imparare ad ascoltare, bisogna tenere a mente quanto ora si è detto, ma di pari passo con l'apprendimento esercitarsi nella ricerca personale, per acquisire un abito mentale non da sofisti o da puri eruditi, ma al contrario profondamente radicato e filosofico, considerando che il saper ascoltare bene è il punto di partenza per vivere secondo il bene.
Note
1- All'età di diciassette anni i giovani romani smettevano la toga puerilis (detta anche praetexta perché era listata di porpora) e assumevano la candida Toga virilis. Si è calcolato, con attendibile approssimazione, che Nicandro (probabilmente figlio di Eutidamo, collega di sacerdozio di Plutarco a Delfi) sia nato tra il 60 e il 70 d. C., il che porrebbe la data di composizione dell'opuscolo nel decennio tra l'80 e il 90 d. C. torna al testo ^
2- L'inadeguatezza sul piano «formativo-culturale», la non conseguita maturità, può indurre i giovani al pericoloso fraintendimento di scambiare per «libertà» la nuova condizione in cui vengono a trovarsi, quando non devono più sottostare agli ordini dei pedagoghi e dei maestri. Sulla notoria rigidità e durezza di questi ultimi si veda ad esempio lo pseudo-Platone, Assioco V, 366 e:
«Quando il bambino [...] raggiunge i sette anni, sopravvengono a tiranneggiarlo i pedagoghi, i grammatici e i maestri di grammatica e, quando è cresciuto, una grande schiera di padroni, dagli insegnanti di letteratura ai geometri, agli istruttori militari. E una volta iscritto nella lista degli efebi, ecco il cosmeta e il timore delle percosse» (tr. di Giovanna Sillitti in Platone, Opere complete, 8, Laterza, Bari, 197l). torna al testo ^
3- Erodoto, I, 8, 3 (si tratta del celebre episodio di Gige e della moglie di Candaule). torna al testo ^
4- Meteci erano in Atene gli stranieri che avevano il permesso di risiedere in città: erano tenuti al pagamento di una tassa (metoíkion, ma non godevano di diritti politici. Tra i più illustri meteci ateniesi furono Cefalo di Siracusa, amico di Socrate, nella cui casa Platone colloca la conversazione filosofica descritta nella Repubblica, e suo figlio, il grande oratore Lisia. torna al testo ^
5- Questo tipo di bacio si chiamava khýtra (nome dato a una pentola a due anse). torna al testo ^
6- I parti «di vento» delle galline, sono le cosiddette «uova chiare», cioè non fecondate: tale è il discorso dei giovani quando non è «fecondato» dall'abitudine di ascoltare.
7- Esametro di autore ignoto.
8- Non si hanno elementi per capire se Plutarco si riferisca qui al celebre oratore ateniese del IV sec. a. C. o all'omonimo filosofo socratico.
9- La prima norma è dunque di non interrompere chi parla e riflettere prima di muovere un'obiezione: non si tratta tanto di buone maniere, anche se questo aspetto non è da trascurare, quanto dell'utilità effettiva che si può ricavare da una lezione. Non pare, invece, che qui entri in discussione il tema della liceità o meno del contraddittorio, ammesso in alcune scuole e negato da altre. Tra queste ultime rientravano gli stoici (cfr. Luciano, Ermotimo 13, dove Licino chiede a Ermotimo, che seguiva appunto la disciplina del Portico, se nella sua scuola era consentito ai giovani di controbattere le affermazioni dei maestri, ma si sente rispondere negativamente) e i pitagorici (cfr. , ad esempio, Gellio, I, 9, 4): più in generale, a Plutarco preme evidenziare come solo attraverso un ascolto attento e una successiva ponderata riflessione si possa dare la giusta valutazione di ciò che si è ascoltato.
10- Economico 1, 15.
11- Questo detto ricorre più volte in Plutarco, sempre attribuito a Platone, ma non appare in nessuna delle opere a noi pervenute del filosofo ateniese.
12- Cfr. Fedro 235 a sgg.
13- Detto famoso di Eraclito di Efeso: Vorsokr 12, I, 22 B 87, p. 170.
14- L'esatta identificazione dei due personaggi risulta complicata: conosciamo, infatti, un Melanzio, tragediografo ateniese del V sec. a. C. , deriso da Aristofane (Pace 802, 1009; Uccelli, 151), e autore secondo Ateneo (VIII, 30, 343 C) anche di elegie (cfr. Plutarco, Cimone, 4, 1, dove si dice che Melanzio compose un poema in onore di Cimone, e 4, 7, dove si riporta un distico elegiaco di Melanzio riferito al pittore Polignoto); che i due siano o no la stessa persona, è questione ancora aperta tra gli studiosi. Quanto a Diogene, si potrebbe pensare a Diogene d'Atene, scrittore della fine del V sec. di cui però sappiamo pochissimo, o molto meno plausibilmente al noto filosofo cinico di Sinope, cui Diogene Laerzio (VI, 80) attribuisce sette tragedie (in tal caso cadrebbe ovviamente l'identificazione di Melanzio con il tragediografo del V sec. a. C.). Amyot pensò a un errore della tradizione manoscritta e preferì emendare il nome in Dionisio, vale a dire Dionisio I di Siracusa, che fu autore di una quarantina di drammi. A nostro parere, dobbiamo solo lamentare la scarsità delle nostre conoscenze su Diogene di Atene.
15- Simonide di Ceo: PMG (D. L. Page, Poetae Melici Graeci, Oxford 192), n. 593, fr. 88. p. 303.
16- Espressione platonica (Repubblica, VIII, 564 e).
17- Aristone di Chio: SVF (H. Von Arnim, Stoicorum Veterum Fragmenta, Hildesheim 1964), I, fr. 385.
18- Espressione platonica (Repubblica, III, 411 a).
19- Coliade era il nome di un promontorio attico, di discussa localizzazione, connesso con un particolare tipo di ceramica.
20- Omero, Odissea XVII, 222.
21- Sulla divisione delle proposizioni indefinite, che erano assiomi semplici, del tipo «l'uomo cammina», sappiamo poco. Il problema concernente il movimento secondo il lato o la diagonale si collega alla corretta interpretazione di un passo platonico (Timeo 36 C): «E il movimento del circolo esteriore lo destinò come movimento della natura del medesimo, e quello del circolo interiore come movimento della natura dell'altro, E quello che ha la natura del medesimo lo rivolse secondo il lato a destra, e quello della natura dell'altro, secondo la diagonale a sinistra» (trad. di C. Giarratano, in Platone, Dialoghi, VI, Laterza, Bari 19l8, più volte ristampata in Opere complete, 6).
22- Le proposizioni connesse sono una forma di assioma complesso, del tipo «se è giorno, c'è luce», «se tizio cammina, si muove», ecc., in cui la seconda frase è necessariamente implicita nella prima; quest'ultima deve essere caratterizzata comunque. dalla congiunzione condizionale. Il sofisma mentitore è menzionato così da Aulo Gellio (XVIII, 2, 10): «Cum mentior et mentiri me dico, mentior an verum dico?» («Quando mento e dico che sto mentendo, mento o dico la verità?»)
23- Citazione da una tragedia sconosciuta: TGF (Tragicorum Graecorum Fragmenta, Hildesheim 1964), Adespota, 361, p. 907.
24- Allusione a un antico gruppo scultoreo: Ermes Lógios era patrono delle arti e delle scienze, compresa quella della parola e della scrittura: di qui i suoi legami con le Grazie (cfr. anche Coniugalia praecepta 138 C-D): «Gli antichi, vicino ad Afrodite, collocarono Ermes, pensando che il piacere delle nozze ha soprattutto bisogno di dialogo, e inoltre Peitho [la Persuasione] e le Grazie, perché gli sposi vedano soddisfatti i reciproci desideri con la persuasione e non battagliando o litigando»).
25- Distico elegiaco di autore ignoto.
26- Rientrava in un particolare genere dell'oratoria epidittica la cosiddetta adossografia, cioè l'elogio delle cose infamanti o disonorevoli. Si confronti, ad esempio, il frammento 21 di Epitteto (in Stobeo III, VII, 16, pp. 313-314 Hense): «[Agrippino] era un uomo siffatto, dice Epitteto che, quando gli capitavano delle contrarietà, sempre ne scriveva l'elogio: se aveva la febbre, della febbre; se soffriva di qualche disonore, del disonore; se era esiliato, dell'esilio».
27- Repubblica V, 474 d-e:
«Un uomo esperto in amore non dovrebbe dimenticare che tutti coloro che si trovano nel fiore della giovinezza, in certo modo mordono e turbano chi ama i fanciulli e ha natura erotica: perché i fanciulli gli sembrano degni di attenzioni e tenerezze. Non vi comportate così con le persone belle? Questo, che ha il naso camuso, lo loderete dicendolo grazioso; il naso aquilino del secondo lo dite regale; al terzo, che ha un naso medio fra i due, attribuite proporzioni perfette. E gente scura la dite virile, i pallidi li chiamate "figli degli dei"; e i "color di miele" e il vocabolo relativo da chi credi siano stati inventati se non da un amante che, usa un eufemismo e che tollera facilmente il colorito pallido della persona amata, se questa è in fresca età?» (tr. cit. di F. Sartori).
28- Fedro 234 e.
29- Archiloco di Paro, celebre poeta lirico del VII sec. a. C. , autore di giambi, elegie, inni ed epigrammi. Il giudizio qui riferito era sostenuto da una corrente critica, come prova anche Quintiliano (X, l, 60): «Notevole è il vigore del suo eloquio, i suoi pensieri sono non soltanto vigorosi, ma anche concisi e penetranti, la sua poesia così succosa e piena di nervi, che il suo essere inferiore a qualcuno sembra a certi studiosi dovuto alla materia, non al suo talento» (tr. di R. Faranda e P. Pecchiura, in Quintiliano, L'istituzione oratoria, II, UTET, Torino 1979, p. 415). Così Orazio dice di aver seguito i ritmi e gli impeti di Archiloco, ma non la sua materia (Epistulae I, 19, 23-25: «Parios ego primus iambos ostendi Latio, numeros animosque secutus Archilochi, non res»).
30- Parmenide di Elea (V sec. a. C.), il più illustre esponente della scuola Eleatica, compose un poema in esametri di cui possediamo ampi frammenti. La critica plutarchea è rivolta espressamente alla sua capacità di versificatore, di costruttore di versi, e si deve intendere probabilmente non in senso strettamente metrico, ma «poetico» in generale: la sua poesia, dice Plutarco (I ragazzi e la poesia, cap. 2), è e rimane una prosa che è salita sul carro della poesia per elevare il suo linguaggio.
31- Focilide di Mileto, poeta gnomico del VI sec. a. C.: il giudizio è di ordine estetico, ed investe la semplicità, e in definitiva la povertà espressiva, dello stile focilideo.
32- Luogo comune della critica euripidea, a partire da Aristofane (Rane 91, 9M, 1069).
33- La discontinuità è da intendersi sul piano dell'intonazione poetica, che da vertici sublimi scivolerebbe in passaggi prosaici. Su questo giudizio concorda anche l'anonimo autore del trattato Sul sublime (33, 5) che osserva: «Pindaro e Sofocle bruciano tutto, per così dire, nel trasporto della loro ispirazione, ma spesso senza motivo si spengono e cadono infelicissimamente».
34- Plutarco evidenzia qui un concetto fondamentale, di straordinaria modernità pedagogica, sottolineando la necessità che tra maestro ed allievo si crei una cooperazione attiva, un «dialogo», anche silenzioso, fatto cioè di pura attenzione e disponihilità all'apprendimento: il maestro si sentirà cosi stimolato a dare il meglio di sé, e l'allievo, a sua volta, trarrà dalla lezione i più grandi benelici. Assolvendo i propri reciproci doveri, si può creare quell'armonia (la sociata tradentis accipientisque concordia di Quintiliano II, 9, 3) che porta alla crescita, umana e culturale, di entrambi i protagonisti della scuola.
35- Fr. 155 Diano: «A Leontio. Per Apollo Risanatore, Leonziuccia mia cara, di qual fragore d'applausi ci hai riempiti nel leggere la tua letterina» (tr. C. Diano, ora in Epicuro, Scritti morali, BUR, Milano 1987, p. 113).
36- Il misolidio era un modo musicale adatto al lamento tragico.
37- Cfr. le parole del filosofo stoico C. Musonio Rufo in Aulo Gellio (V, 1-4): «Quando il filosofo esorta, ammonisce, persuade,rimprovera o sviluppa un altro punto d'insegnamento, se gli uditori si abbandonano, senza riflessione e ritegno, ai primi elogi che vengono loro in mente, se levano alta la voce, se si lasciano trascinare, eccitare ed entusiasmare dalle fioriture dei suoni, dalla melodia delle parole e per così dire dal ritmo del discorso, allora sappi che chi insegna e chi ascolta sprecano entrambi il loro tempo e non c'è più un filosofo che parla, ma un flautista che suona. Quando le parole del filosofo sono utili, salutari e apportano una cura medica agli errori e ai vizi, l'animo di chi ascolta non può rilassarsi e non ha il tempo per lunghi e diffusi elogi. Chiunque sia chi ascolta, a meno che non si tratti di una persona assolutamente incorreggibile, è inevitabile che rabbrividisca alle parole del filosofo e conservi un pudico silenzio e provi dentro di sé sentimenti di pentimento, gioia e stupore; e ancora che le espressioni del viso cangino e così pure il suo stato d'animo, a seconda che l'esame del filosofo tocchi lui e la sua coscienza e sondi le due parti dell'animo suo, quelle sane o quelle malate».
38- Citazione dal Telefo, tragedia euripidea non pervenuta: TGF, 724.
39- Cleante di Asso (ca. 331-232 a. C.), filosofo dell'antica Stoa, successe al suo maestro, Zenone di Cizio, nella direzione della scuola: di lui Diogene Laerzio (VII, l70) scrive: «Era diligente, ma privo di attitudini naturali ed eccessivamente lento. [...] Sopportava di buon grado il motteggio dei suoi condiscepoli e, quando lo chiamavano asino, non si dispiaceva, anzi aggiungeva che era il solo capace di sostenere il fardello di Zenone» (trad. di M. Gigante in Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Laterza, Bari 1962). Sempre Diogene Laerzio (IV, 6) scrive di Senocrate: «Era tardo d'ingegno, sì che Platone paragonandolo con Aristotele soleva dire: "L'uno ha bisogno di sprone, l'altro di freno" e anche: "Quale asino io alleno a lottare contro un tale cavallo!"» (trad. di M. Gigante).
40- Antigone 232.
41- Ieronimo di Rodi (III sec. a. C.), filosofo peripatetico, poi eclettico. Non è chiaro a quale scritto Plutarco faccia riferimento in questa citazione, (fr. 20 di Ieronimo), né sappiamo se sia riconducibile alla stessa opera cui appartiene il fr. 19. In quest'ultimo si parla esplicitamente di una ricerca Sull'educazione dei ragazzi, ma anche qui è dubbio se Ieronimo abbia composto un'opera specifica sull'argomento, che si possa annoverare tra le fonti cui attinsero Plutarco e l'estensore de L'educazione dei ragazzi.