Analisi economica del diritto e disciplina della proprieta’ una antologia di materiali [1]
di: Guido Alpa, Mario Bessone, Andrea Fusaro [2] [3]
Un metodo di studio della proprietà: l’analisi economica del diritto
Introduzione
La disciplina della proprietà è ormai oggetto fondamentale della nuova linea interpretativa che, con espressione tecnica, si denomina «analisi economica del diritto».
Analisi economica del diritto come si sa indica un nuovo metodo di analisi degli istituti giuridici (oltre alla proprietà: il contratto, la responsabilità, la famiglia, la concorrenza, l’inquinamento e la tutela dell’ambiente, ecc.), ormai da tempo emerso nell’esperienza nord-americana e inglese, e ben presto accolto in altre esperienze.
Non si tratta quindi della comune «interpretazione economica» – di cui già nel secolo scorso si sono avute massime espressioni, sopratutto alla fine del secolo in Francia e in Italia, per l’affermarsi del socialismo giuridico – con la quale si indagano i rapporti tra «economia» e «diritto»: una indagine di questo tipo, di cui le pagine di Pound in Giustizia, diritto, interesse sono emblematiche, nel mondo economico, delle scelte legislative e dei modelli interpretativi della giurisprudenza, così come lascia nel vago la situazione opposta, relativa all’adeguamento delle norme (e della interpretazione giuridica) alle direttive provenienti dal mercato.
Analisi economica del diritto è invece una precisa linea interpretativa, che riguarda l’applicazione delle c.d. teorie del benessere (e, in particolare, di quella tendenza delle economie del benessere che ruota intorno al paradigma della efficienza) alle norme giuridiche.
In altri termini si studiano i modi nei quali le norme giuridiche devono essere modellate (se introdotte dal legislatore) o interpretate(se elaborate dai giudici) al fine di ottenere la massima efficienza, e quindi la situazione ottimale per un uso «razionale» delle risorse.
Si tratta quindi di un nuovo metodo di studio del diritto che comporta l’applicazione di taluni schemi economici agli istituti fondamentali del diritto.
L’avvio dello studio di questo nuovo metodo si deve particolarmente a Ronald Coase, docente all’Università di Chicago, che formula nel 1960 una tesi – poi definita «teorema di Coase» – dalla quale si sviluppa poi tutta la letteratura anglo-americana in materia.
Una tesi che discute la «indifferenza» delle norme giuridiche che operano un determinato assetto degli interessi alle valutazioni economiche, se quelle norme giuridiche di per sé realizzano l’efficienza; o, più semplicemente, l’indifferenza dell’assetto degli interessi tra privati, realizzato da norme giuridiche, quando questo assetto rispecchia l’esigenza di assicurare la massima efficienza e un uso razionale delle risorse.
Ne nasce una autentica «rivoluzione» nell’analisi del diritto: dal momento che il perseguimento dell’efficienza economica comporta la predisposizione di precise scelte sia a livello legislativo, sia a livello di applicazione giurisprudenziale.
I centri di analisi economica del diritto sono ora numerosi. Attorno a Coase si sviluppa una scuola, la scuola di Chicago, che costituisce l’orientamento più rigoroso nell’applicazione delle categorie economiche; una scuola è assai viva all’Università di Yale, con Calabresi e Ackerman; e ancora un’altra Università di Miami, sottola direzione di Manne. Ma centri di analisi economica del diritto sono ora diffusi in altre università (come, per es., a Londra e a Oxford).
Si tratta di una analisi che ha già dato rilevanti risultati, nei vari settori in cuisi è applicata (in particolare, in materia di responsabilità civile e assicurazione,in materia di inquinamento, e altre ancora).
Numerose sono le pubblicazioni fino aora uscite: oltre a veri e propri manuali o antologie, come quelli di Posner, Ackerman,Manne, vi sono numerosi saggi comparsi in varie riviste, e poi alcune riviste specializzate come quella curata da Posner, il Journal of Legal Studies.
Nel nostro paese operano alcuni autorevoli studiosi ma l’attenzione per l’analisi economica del diritto è ancora limitata: vi sono stati alcuni tentativi «autonomi», per così dire, di approccio economico agli istituti giuridici e tuttavia una vera e propria analisi economica del diritto secondo le tesi della economia del benessere raramente è stata sviluppata in modo organico.
Da ciò dunque l’estremo interesse di una analisi di questo tipo , proponendo essa un nuovo metodo di studio e di ricerca. E l’interesse è accentuato dal fatto che l’analisi economica del diritto è essenzialmente un metodo che conduce a scelte operative, e quindi segnala le manchevolezze, le esigenze, le soluzioni ottimali a chi opera nel mondo del diritto: quindi, non solo al legislatore, o all’interprete: ma anche all’amministratore pubblico.
Trattandosi di metodo sviluppato nell’ambito di esperienze occidentali, i modelli discussi sono facilmente utilizzabili anche nell’esperienza italiana, e costituiscono quindi la premessa per uno svolgimento della materia con perfetta aderenza alle caratteristiche tipiche del nostro sistema.
Introdurre un discorso sull’analisi economica del diritto comunque significa dare al lettore un ampio panorama dei presupposti di metodo, dei tentativi di analisi, dei primi risultati ottenuti, seguendo due fondamentali criteri: il criterio della interdisciplinarietà; il criterio della pluralità di interventi.
Entrambi i criteri – che tra l’altro aprono uno spazio nella cultura giuridico /istituzionale ed economica assai importante – convergono nel proporre ai giuristi una analisi sorretta da considerazioni e argomentazioni economiche; e agli economisti, un terreno di prova delle teorie del benessere, calcolate nella realtà effettuale.
L’unione di un metodo riferito a categorie economiche e di uno soggetto a contenuti giuridici è dunque essenziale per una comprensione complessiva del fenomeno dell’analisi economica del diritto.
Le premesse dell’analisi economica del diritto: il teorema di Coase
Entro i confini di questo capitolo, confini necessariamente circoscritti, i «saggi » offerti sono soltanto emblematici, e acquistano più la funzione di sollecitazione del lettore ad avventurarsi in un nuovo terreno di analisi, che non quella di documentare un esame completo ed esaustivo della materia.
L’avvio di questa documentazione, per ragioni per così dire storiche, deve coincidere con il «teorema di Coase», che sta alla base della ulteriore evoluzione della nuova linea interpretativa: ma, prima ancora, con la polemica tra Knight (Some Fallacies in the Interpretation of Social Cost, in Quart. Journal of Economics, 1924, pp. 528 ss.) e Pigou, Economics of Welfare (Torino, 1963).
Il saggio di Ronald Coase, The Problem of Social Cost, in Journal of Law and Economics, 3, pp. 1 ss. (1960) qui di seguito offerto nella traduzione curata da Guido Alpa rappresenta ormai un classico della produzione scientifica in materia.
< Questo saggio riguarda l’azione delle imprese che svolgono attività con effetti dannosi per i terzi. L’esempio sintomatico è dato dallo stabilimento industriale le cui immissioni di fumo provocano danni ai proprietari finitimi. L’analisi economica di questa situazione di solito si è affrontata in termini di divergenza tra il prodotto privato e il prodotto sociale, problema correntemente risolto dagli economisti nella linea dell’economia del benessere di Pigou. Le conclusioni cui pervengono molte analisi economiche è che sarebbe desiderabile rendere responsabile l’imprenditore per i danni provocati ai proprietari dalle esalazioni di fumo, o, in alternativa, istituire una imposta a carico dell’imprenditore destinata a variare con la quantità delle immissioni, ed equivalente, in denaro, al danno causato; oppure ancora, trasferire lo stabilimento in altre aree, al di fuori comunque delle aree abitate, e in zone nelle quali le immissioni avrebbero un effetto dannoso meno consistente. È mia convinzione che i rimedi suggeriti non sono appropriati, e che essi portano a risultati non necessariamente, o affatto desiderabili.
Proporrei di iniziare l’analisi esaminando un caso in cui, a parere di molti economisti, probabilmente la soluzione si potrebbe trovare in modo davvero soddisfacente: è il caso in cui l’attività imprenditoriale deve risarcire tutto il danno causato, e il sistema dei prezzi opera senza costi.
Un buon esempio di questo problema è offerto dal caso di bestiame che si sia smarrito e abbia invaso campi dei vicini distruggendo il grano in crescita.Si supponga che su proprietà vicine lavorino un agricoltore e un allevatore di bestiame. Si supponga ancora che, non essendovi alcuna staccionata divisoria tra le proprietà, ogni incre-mento della mandria dell’allevatore si risolva in un decremento equivalente del raccolto di grano dell’agricoltore. Un’altra cosa è invece accertare che cosa accade al danno marginale quando si accresce la mandria. Ciò dipende infatti da molti fattori: e cioè dal fatto che i singoli capi procedano in fila, ovvero si mettano a vagare da un lato all’altro dei campi, se siano abituati a pascolare o ad accasciarsi e così via. Ai nostri fini, è del tutto indifferente calcolare il danno marginale quando la mandria aumenta.
Per rendere più semplice il discorso, si possono usare riferimenti aritmetici. Si assuma che il costo per recintare la proprietà dell’agricoltore sia di 9 dollari l’anno, e che il prezzo del grano sia di 1 dollaro per tonnellata. Si assuma anche che il rapporto tra il numero dei capi della mandria e la perdita annuale di grano sia così congegnato:
Grandezza della mandria Perdite annuale di grano Perdite per l’aumento (capi) (tonnellate) di capi (tonnellate)
1 1 1
2 3 2
3 6 3
4 10 4
Se si assume ancora che l’allevatore sia responsabile per il danno causato, il costo annuale addizionale per l’allevatore, se la sua mandria si accresce– poniamo – da 2 a 3 capi è di 3 dollari, e nel decidere la grandezza della mandria egli dovrà tener conto di questo costo insieme con tutti gli altri costi. Ciò significa che l’allevatore non accrescerà il numero dei capi a meno che il valore della carne addizionale prodotta (sempre che l’allevatore macelli le sue bestie) sia superiore al costo addizionale che l’aumento comporta; calcolando anche il valore del grano addizionale distrutto è chiaro che se l’impiego di cani, pastori, aeroplani, radiomobili e altri mezzi può ridurre l’ammontare del danno, questi mezzi saranno adottati quando il loro costo è inferiore a quello del raccolto di grano che si vuol salvare.
Assumendo ancora che il costo della recinzione sia di 9 dollari all’anno, l’allevatore che desiderasse avere una mandria di 4 capi o poco più sarà incline a pagare per la recinzione, dal momento che gli altri mezzi sarebbero senz’altro più dispendiosi. Una volta che la staccionata è stata eretta, il costo marginale dovuto alla responsabilità per danni diventa pari a zero, a eccezione del caso in cui le dimensioni della mandria aumentino, perché allora occorre una staccionata più resistente e quindi più costosa, dal momento che un numero più alto di capi fa aumentare la pressione del bestiame contro gli spalti. Ma può essere più conveniente per l’allevatore non recintare la proprietà, e pagare per il risarcimento del danno quando – come si assume nell’esempio aritmetico – i capi siano 3 o ancor meno.
Si potrebbe anche pensare che il fatto che un allevatore di bestiame sia disposto a risarcire il danno inferto ai raccolti di grano induca l’agricoltore a coltivare più grano quando nella proprietà vicina si stabilisce un allevamento di bestiame. Ma non è così. Se il grano è stato venduto, prima, in condizioni di concorrenza perfetta, il costo marginale era eguale al prezzo per l’aumento di semina che è stato intrapreso, e ogni estensione della superficie coltivata avrebbe avuto come risultato una riduzione del profitto dell’allevatore.
Nella nuova situazione, l’esistenza di un danno inferto al raccolto significa che l’agricoltore potrà vendere una quantità minore sul mercato, ma il suo ricavato rimarrà inalterato perché l’allevatore pagherà a prezzo di mercato la quantità di grano distrutto dal bestiame. Dal momento che l’allevamento del bestiame comporta di solito la distribuzione di raccolti di grano è chiaro che l’industria di allevamento provoca, al suo insediamento, un aumento del prezzo del grano e quindi gli agricoltori saranno portati ad aumentare le superfici coltivate. Ma ora fermiamoci a considerare soltanto l’agricoltore individuale.
Si è detto che l’installazione di una impresa di allevamento nei pressi di una zona agricola non dovrebbe portare a un aumento della produzione di grano, e più esattamente delle superfici coltivate. Infatti, posto che l’allevamento di bestiame abbia qualche effetto, si dovrebbe semmai registrare una diminuzione della produzione. E la ragione è che – per ogni tratto di terreno considerato – se il valore del grano distrutto è così alto che il ricavato dalla vendita del grano non distrutto è inferiore al costo totale di coltivazione di quell’appezzamento, l’agricoltore avrà interesse a fare un accordo con l’allevatore perché quel terreno rimanga incolto.
Ciò risulta con chiarezza se si fa un esempio aritmetico. Si assuma inizialmente che il valore del grano coltivato in un appezzamento sia di 12 dollari e che il costo di coltivazione sia di 10; il guadagno nella coltivazione sarà allora di 2 dollari. Per semplicità di discorso, si consideri pure che l’agricoltore è anche proprietario del terreno. Si consideri anche che a un certo punto l’allevatore comincia ad allevare bestiame, e che il valore del grano distrutto nella vicina proprietà sia di 1 dollaro. In tal caso, l’agricoltore ricaverà 11 dollari dalla vendita sul mercato, e 1 dollaro dall’allevatore a titolo di risarcimento; il guadagno netto rimane sempre di 2 dollari.
Si supponga poi che l’allevatore decida di aumentare le dimensioni della sua mandria, anche se ciò comporta un danno di 3 dollari; ciò significa che la produzione addizionale di carne supera il costo addizionale, includendovi anche i 2 dollari di risarcimento del danno. L’ammontare del danno totale è ora però di 3 dollari. Il guadagno netto dell’agricoltore rimane di 2 dollari. L’allevatore sarà allora disposto ad accordarsi con l’agricoltore per lasciare incolta parte dell’area coltivata, ma a qualsiasi costo inferiore a 3 dollari.
A sua volta l’agricoltore potrà esser d’accordo, ma a un pagamento superiore a 2 dollari. E c’è chiaramente spazio per un accordo soddisfacente per entrambi le parti, che può persino arrivare all’abbandono della coltivazione. Lo stesso discorso si può fare non soltanto per tutta l’area coltivata dall’agricoltore, ma anche per una sola sua parte. Si supponga, per es., che il bestiame segua un sentiero ben definito, che conduce a un pozzo, o a una zona ombrosa. Il danno risentito dal raccolto lungo il sentiero può essere così grande da indurre l’agricoltore e l’allevatore ad accordarsi perché l’intero tratto non sia coltivato.
Vi è però una possibilità ulteriore. Si supponga appunto che vi sia questo tratturo ben definito. Si supponga ancora che il valore del grano ottenuto coltivando questa striscia di terra sia di 10 dollari, ma che il costo di coltivazione sia di 11 dollari. Se non ci fosse l’allevatore, quel pezzo di terra non sarebbe coltivato. Invece, essendoci il coltivatore, potrebbe accadere che, una volta coltivata la striscia, tutto il raccolto andrebbe distrutto dal bestiame. In tal caso l’allevatore pagherebbe 10 dollari all’agricoltore. E allora quest’ultimo perderebbe 1 dollaro. Ma l’allevatore ne perderebbe 10. È chiaro che si è in presenza di una situazione che non può durare, e che le parti si accorderanno per modificarla. Lo scopo dell’agricoltore è quello di indurre l’allevatore a pagare qualcosa perché quella parte di terra rimanga incolta.
L’agricoltore non potrebbe quindi ottenere un prezzo superiore al costo di recinzione dell’area e neppur così alto da indurre l’allevatore ad abbandonare l’area del vicino. Il punto di incontro si raggiungerà là dove potrà fissarlo l’accortezza dell’agricoltore e dell’allevatore, nelle trattative. Ma dal momento che il prezzo non può essere così alto da indurre l’allevatore ad abbandonare il terreno, e se non varia con l’aumentare delle dimensioni della mandria, tale accordo non dovrebbe alterare la distribuzione delle risorse, ma soltanto alterare la distribuzione del guadagno e della ricchezza tra l’allevatore e l’agricoltore.
Credo che sia ormai chiaro che se l’allevatore è responsabile per il danno causato, e il sistema dei prezzi opera perfettamente, la riduzione del valore della produzione agricola deve essere considerata nel calcolare il costo addizionale costituito da un aumento della mandria. Questo costo sarà sopportato in corrispondenza all’aumento addizionale di produzione di carne e, se si considera che il mercato del bestiame sia di concorrenza perfetta, l’allocazione delle risorse nell’allevamento sarà ottimale. Ciò che è importante sottolineare è che la caduta nella produzione di cereali di cui si tien conto nella stima dei costi sopportati dall’allevatore potrebbe essere inferiore al danno cagionato al raccolto nel corso normale degli eventi.
Ciò perché è sempre possibile che si verifichino discontinuità nella produzione di grano per ragioni di «transazioni» di mercato. Ciò è desiderabile ogni volta che il danno cagionato dal bestiame e risarcito effettivamente dall’allevatore eccede la somma che l’agricoltore vorrebbe pagare per l’uso del terreno. In condizioni di concorrenza perfetta, l’ammontare della somma che l’agricoltore vorrebbe pagare per continuare a usare la terra è eguale alla differenza tra il valore della produzione totale «e il valore del prodotto addizionale».
Se il danno supera questa somma, l’agricoltore vorrà pagare per continuare a coltivare e il valore del prodotto addizionale […] sarà superiore al valore del prodotto totale dopo che si è tenuto conto del danno. Ne consegue che sarà desiderabile abbandonare la produzione della terra e organizzare i fattori di produzione altrove. Un procedimento che imponesse semplicemente di risarcire il danno del raccolto cagionato dal bestiame ma non consentisse di alterare la continuità della coltivazione della terra si risolverebbe allora in un modesto impiego di fattori di produzione nel settore dell’allevamento e in un largo impiego dei fattori di produzione nella coltivazione di grano.
Se invece vi è la possibilità di fare transazioni di mercato, la situazione in cui il danno del raccolto è superiore al reddito che si ricava dalla terra non potrebbe durare. Sia che l’allevatore paghi l’agricoltore perché abbandoni la coltivazione, oppure prenda in affitto egli stesso la terra pagando al proprietario un canone leggermente più alto di quello pagato dall’agricoltore (se questi l’aveva affittata), il risultato finale non cambia e si ottiene comunque la massimizzazione dei fattori della produzione. Se poi l’agricoltore volesse continuare a coltivare la terra anche in condizioni di sotto-guadagno, è chiaro che una situazione di questo tipo è destinata a durare solo nel breve, e che si risolverà con un accordo destinato a far cessare la coltivazione.
L’allevatore rimarrà nella zona, il costo marginale della produzione di carne sarà identico a quello precedente, e non avrà alcun effetto sulla allocazione delle risorse nel lungo periodo. Torniamo ora al caso in cui, anche se si assume che il sistema dei prezzi opera perfettamente, cioè senza costi, l’impresa danneggiante non sia responsabile per il danno causato. In tal caso, questa attività economica non comporta pagamento alcuno a chi riceva un danno. Mi propongo di dimostrare che l’allocazione delle risorse è identica al caso in cui l’impresa doveva risarcire il danno causato […].
Torniamo all’esempio dell’agricoltore e dell’allevatore di bestiame. L’agricoltore sarà esposto a un aumento del danno in corrispondenza all’incremento del bestiame.
Si supponga che la grandezza della mandria sia di 3 capi (e che questa sia la dimensione da mantenersi, se non si tiene conto del danno al raccolto). L’agricoltore sarà incline a pagare fino a 3 dollari se in concomitanza l’allevatore volesse ridurre di 2 capi la sua mandria, e fino a 5 dollari se la mandria si riduce a un solo capo, e fino a 6 dollari se l’allevatore abbandona l’allevamento. L’allevatore riceverà allora 3 dollari dall’agricoltore se terrà 2 capi invece che 3. I 3 dollari sono una parte del costo connesso con il tenere un capo in più (3 anzi che 2). Sia che i 3 dollari siano il prezzo che l’allevatore deve sborsare se si aggiunge il terzo capo, – cosa che accadrebbe se l’allevatore fosse responsabile del danno causato al raccolto –, sia che i 3 dollari siano solo la somma che l’allevatore riceverebbe se non allevasse la terza bestia, – cosa che avverrebbe se l’allevatore non fosse responsabile del danno cagionato al raccolto – il risultato non cambia. In ogni caso, i 3 dollari sono il costo addizionale che è connesso alla terza bestia, e da calcolarsi insieme con gli altri costi.
Se l’incremento di valore di produzione dell’allevamento di bestiame conseguente all’aumento da 2 a 3 dei capi è superiore ai costi addizionali che si dovrebbero sopportare (ivi inclusi i 3 dollari per il danno al raccolto)le dimensioni della mandria saranno senz’altro accresciute. Altrimenti, non lo saranno. La grandezza della mandria sarà allora la stessa, sia che l’allevatore sia responsabile, sia che non lo sia. Si può anche pensare che l’assunto di partenza – una mandria di 3 capi – era del tutto arbitrario. Ciò è vero. Ma l’agricoltore non vorrà certo pagare per evitare un danno al raccolto che l’allevatore non era in grado di causare. Ad esempio, il pagamento massimo annuale che l’agricoltore sarebbe indotto a pagare non dovrà eccedere i 9 dollari, cioè il costo annuale della recinzione. E l’agricoltore sarà indotto a pagare questa somma solo se i suoi guadagni non sono ridotti a un livello che lo indurrà ad abbandonare la coltivazione di quel particolare tratto di terra. Egli inoltre sarà indotto a pagare questa somma solo se potrà credere che, in assenza di ogni risarcimento, l’allevatore terrà una mandria con 4 o più capi di bestiame.
Consideriamo che sia proprio questo il caso. L’agricoltore sarà incline a pagare fino a 3 dollari se l’allevatore ridurrà la sua mandria a 3 capi, fino a 6 dollari se la mandria è ridotta a 2 capi, fino a 8 dollari, per 1 capo, e fino a 9 dollari per l’assenza di bestiame. Si deve notare che il cambiamento nel punto iniziale non ha alterato l’ammontare della somma che si attribuisce all’allevatore, quando questi riduce le dimensioni della sua mandria per ogni ammontare dato. È sempre vero che l’allevatore potrà ricevere un aumento addizionale di 3 dollari dall’agricoltore se sarà d’accordo nel ridurre la sua mandria da 3 capi a 2, e che i 3 dollari costituiscono il valore del grano che andrà distrutto se si aggiunge un capo in più alla mandria (da 2 a 3). E sebbene una convinzione opposta dell’agricoltore (sia essa giustificata o no), sulle dimensioni della mandria che l’allevatore volesse tenere in assenza di ogni risarcimento, può incidere sulla somma che egli sarebbe indotto a pagare, non è altrettanto vero che questa diversa convinzione potrebbe dispiegare qualche effetto sulle dimensioni della mandria che l’allevatore attualmente vorrebbe tenere.
E sarebbe lo stesso se l’allevatore fosse costretto a pagare per il danno cagionato, dal momento che il ricavo da una determinata somma è equivalente al pagamento di quella stessa somma. Si potrebbe anche pensare che l’allevatore può essere gratificato dal fatto di aumentare la sua mandria nelle dimensioni preferite dopo aver compiuto la transazione con l’agricoltore, al fine di indurre questo a pagare una somma assai alta. Ciò può esser vero. Ed è la stessa situazione in cui l’agricoltore(quando l’allevatore era responsabile)dopo aver transatto con l’allevatore, si decideva ad abbandonare la coltivazione( includendovi la terra che non sarebbe stata coltivata affatto per l’assenza di bestiame). Queste misure, però, sono preliminari a un accordo, e non incidono sulle posizioni di equilibrio nel lungo periodo, cosa che risulta identica, sia che l’allevatore sia o no responsabile per il danno cagionato.
È necessario allora sapere se l’imprenditore è responsabile o no per il danno causato, perché senza una iniziale distribuzione di questi diritti e di queste pretese non vi può essere transazione per redistribuirli o contemperarli. Ma il risultato finale(che massimizza i valori di produzione)è indifferente alla situazione giuridica, se si assume che il sistema dei prezzi opera senza costi >.
Sul concetto di «esternalità» e di «razionale uso delle risorse» insistono gli economisti italiani che hanno tradotto nella nostra letteratura la problematica sviluppata negli ambienti nord-americani.
Assai utili per la lettura dei saggi che si propongono sono le seguenti pagine di Ugo Mattei, La proprietà immobiliare (II ed., Torino, 1995, pp. 27 ss.)
Le scelte proprietarie quotidianamente poste in essere dal giudice devono essere accompagnate da un criterio generale di efficienza
< Sarebbe ingenuo ritenere che l’ordinamento giuridico positivo contenga già tutte le possibili scelte proprietarie. Molte di queste sono affidate al giudice, il quale le compie interpretando la legge.
Il giudice non è legittimato a introdurre criteri politici nell’ambito delle proprie scelte in materia di proprietà. Ciò che egli deve garantire è un processo decisionale neutrale. Egli deve affiancare un controllo tecnico a opzioni politiche imboccate altrove. In altre parole, il giudice deve presupporre risolta la scelta politica a favore di uno o dell’altro interesse in conflitto. Tale scelta, una volta compiuta, è formalizzata nel testo normativo che egli è chiamato ad applicare al caso concreto. Su tale operazione egli deve concentrarsi.
Ciò non significa che il giudice possa disinteressarsi dell’impatto generale della sua scelta. Egli è pur sempre depositario di scelte istituzionali che devono evitare di avere effetti disastrosi. Lo strumento che il giudice deve utilizzare in materia proprietaria al fine di adempiere al difficile compito di offrire soluzioni rispettose delle opzioni politiche altrove operate(e dunque, per quanto lo riguarda, neutrali), ma al contempo creative di un buon sistema giuridico, è quello dell’efficienza. Le più recenti acquisizioni scientifiche mostrano come l’efficienza costituisca la miglior stella polare per un giudice consapevole del proprio ruolo. Si tratta del solo criterio di scelta non arbitrario che egli abbia a disposizione nell’implementare e controllare il programma politico introdotto in un testo normativo.
Nell’abbracciare il criterio dell’efficienza il giudice non ha motivo di essere nostalgico per l’abbandono della stella polare che finora l’ha guidato: la giustizia. Il criterio di giustizia risulta collocato nelle sedi appropriate. Egli potrà disapplicare un regolamento che riterrà palesemente ingiusto in quanto, poniamo, in palese violazione del diritto d’eguaglianza. Se si tratta di un giudice amministrativo, potrà perfino annullare questo regolamento. Se il dubbio della palese ingiustizia lo attanaglierà, egli potrà sollevare la questione di costituzionalità anche d’ufficio. E se giudice costituzionale, potrà perfino annullare la legge ingiusta. Ma queste sono le patologie, i casi-limite, non il funzionamento quotidiano della giurisprudenza.
Al di fuori di queste ipotesi egli può presupporre che i criteri politici elaborati altrove si conformino a uno standard minimale di giustizia. Egli presupporrà che la legge(o il regolamento) nel quale essi sono formalizzati sia «giusta». Nell’applicarla secondo un criterio di efficienza egli non farà altro che contribuire alla selezione della miglior regola giusta per la soluzione del conflitto proprietario che è chiamato a risolvere. Utilizzare il criterio di giustizia oltre i limiti indicati significa sostituire alle scelte politiche elaborate nelle sedi competenti le scelte politiche del singolo giudice. Tale sostituzione, ancorché ammantata di giustizia, è arbitraria, in quanto non legittimata né politicamente né dal punto di vista culturale.
Il criterio fondamentale di efficienza in materia proprietaria sta nella lotta agli sprechi
L’analisi economica del diritto reclama un vasto ambito applicativo. Molte delle critiche che le vengono rivolte, e che tuttora ne limitano il definitivo imporsi fra le metodologie di interpretazione del diritto italiano, stanno nella eccessiva patrimonializzazione del discorso giuridico, il quale viceversa dovrebbe essere guidato da ben altri e superiori valori etici, morali o costituzionali. Senza prender partito circa questa critica, ci limitiamo a osservare che essa non può intervenire in materia di proprietà. Invero, la disciplina giuridica dei beni costituisce la base stessa dei rapporti patrimoniali fra consociati, sicché l’interpretazione economica del diritto non risulta soltanto consigliabile, ma pare addirittura inevitabile.
Il criterio di efficienza che intendiamo utilizzare nell’analizzare e valutare il diritto italiano in materia di proprietà è particolarmente banale e innocuo per i valori portanti dell’ordinamento. Si tratta della proposizione per cui le regole giuridiche dovrebbero tendere a eliminare gli sprechi economici. Una regola intanto sarà la miglior regola possibile per la soluzione di una controversia relativa a una risorsa scarsa, in quanto riduca al minimo le quantità di risorse che anziché essere messe a profitto divengono inutilizzabili per tutti. Questo criterio particolarmente semplice viene riempito di contenuto da una serie di corollari che derivano direttamente dal teorema di Coase.
In materia di proprietà le regole giuridiche fondamentali hanno natura dispositiva.
Esse costituiscono un programma di allocazione delle risorse intorno al quale le parti possono negoziare soluzioni alternative più efficienti.
È stato dimostrato nel c.d. teorema di Coase che, qualora le parti siano lasciate libere di negoziare e abbiano la possibilità di farlo senza essere inibite a costi eccessivi, esse raggiungeranno risultati efficienti indipendentemente dalle regole giuridiche sottese al loro rapporto. L’efficienza intesa come massima riduzione di sprechi è favorita da un accordo che vedrà in tal modo la risorsa scarsa allocata a chi la valuta di più all’interno di un libero negoziato. Nel nostro ordinamento giuridico le norme privatistiche aventi natura cogente sono una rarità, e sono inoltre confinate al di fuori della materia proprietaria. Per quanto riguarda le norme pubblicistiche, viceversa, esse di regola hanno natura cogente. Nondimeno, in materia di proprietà, il principio dell’inderogabilità della normativa pubblicistica riceve importanti smentite, come per es. nell’ambito della procedura di espropriazione per pubblica utilità, dove importanti spazi negoziali sono aperti fra il cittadino e la P.A. L’interpretazione giuseconomica perciò suggerisce di non considerare cogenti le norme, se non in quanto ciò risulti espressamente dalle scelte politiche effettuate nelle sedi apposite.
Le regole giuridiche in materia di proprietà devono essere interpretate in modo che i costi che inibiscono la trattativa diretta fra le parti vengano ridotti il più possibile
Sovente le parti incontrano gravi ostacoli nel comunicare l’una con l’altra. Questi ostacoli possono derivare dalla lontananza geografica che impone costi di avvicinamento. Possono derivare dalla cattiva disposizione di una parte nei confronti di un’altra. Possono essere determinati dall’ordinamento giuridico. In generale, il diritto ri deve adoperarsi affinché questi c.d. costi transattivi vengano ridotti o comunque allocati alla parte maggiormente in grado di sopportarli. Soltanto così le parti saranno incoraggiate a negoziare un assetto proprietario più efficiente. Le regole proprietarie che il giudice elabora nel dirimere concreti conflitti molto possono a questo proposito. Certo, la stessa presenza delle parti in Corte dimostra che nel caso di specie non si è giunti a un accordo. Ma la riflessione da svolgere a questo proposito ha un carattere più generale.
Innanzitutto, la comparazione dei costi transattivi molto può suggerire anche sul piano delle alternative istituzionali. Può essere assai più costoso attribuire certe scelte al sistema delle corti piuttosto che a una P.A. In questo caso è bene che la via della scelta centralizzata venga percorsa senza timori. Per esempio, in materia di urbanistica sono proprio i costi transattivi a suggerire, salvo eccezioni, la maggior efficienza di un sistema di zonizzazione rispetto alla possibile alternativa di assegnare alle corti, incidentalmente alla soluzione di singoli conflitti di vicinato, la disciplina del territorio. Naturalmente questa proposizione generale non significa che in materia urbanistica occorra introdurre un sistema rigido e assolutamente inderogabile. Il negoziato al limite delle aree può, entro certi limiti, essere consigliabile.
Sempre sul piano generale, può osservarsi che l’elaborazione giudiziaria di regole efficienti non limita il proprio impatto alla soluzione della controversia di specie. È viceversa nell’ambito della funzione nomofilattica delle corti che il criterio dell’efficienza giuoca il proprio principale ruolo. I costi transattivi possono per es. essere abbattuti a freccia riconoscendo al criterio del preuso, codificato nell’art. 844 c.c. , il suo giusto ruolo. Particolarmente importante è pure la consapevolezza che certi costi transattivi vengono indotti dalla stessa struttura dell’organizzazione istituzionale di un dato sistema, la quale per varie ragioni storiche può far sopravvivere situazioni di monopolio. L’esempio più importante recentemente messo in luce è l’atto pubblico.
Le regole giuridiche devono essere interpretate in modo che l’eventuale fallimento della trattativa fra le parti riduca il più possibile il costo di tale fallimento
Se, come detto, le norme del nostro diritto in materia di proprietà sono da considerarsi dispositive fino a prova contraria, ciò non significa che le parti addiverranno comunque a una regolamentazione efficiente dei rapporti proprietari. Il negoziato può portare a risultati inefficienti per una serie di ragioni ben studiate dalla teoria microeconomica: monopoli, comportamenti strategici, esternalità, difetti di informazione, sono soltanto i più ovvi esempi di problemi dei quali il diritto deve farsi carico. In termini più familiari per il giurista, può darsi che l’accordo in deroga venga carpito con il dolo, estorto con la violenza, sia determinato da uno stato di palese inferiorità economica, ecc., ecc. Evidentemente, diverse aree del diritto concorrono a risolvere questi problemi.
Più semplicemente, nella materia che ci occupa può darsi che il negoziato fallisca per una qualsiasi ragione. In questo caso occorre che le regole giuridiche di default, vale a dire che si attivano in mancanza di accordo contrario, siano forgiate in modo tale da evitare lo spreco. Ciò restituisce concretezza al discorso giuseconomico, perché ogni qual volta le parti si presentano in Corte si può presumere la presenza di costi transattivi tanto alti da portarci al di fuori del campo di applicazione del teorema di Coase. Supponiamo che Tizio costruisca in buona fede un immobile, debordando soltanto di poco sulla proprietà di Caia. In un tal caso, in mancanza di costi transattivi sarebbe del tutto indifferente il contenuto della regola di cui all’art. 938 c.c. Tanto che a Caia sia attribuito ius tollendi (come nel sistema francese), quanto che le sia sottratto facendo scattare la c.d. accessione invertita(come appunto nel diritto tedesco e da noi), il risultato dal punto di vista dell’efficienza economica non muterebbe.
Tizio comprerebbe comunque il diritto da Caia, qualora egli valutasse maggiormente il proprio immobile di quanto essa la propria fettina di terra. Per converso, qualora Caia dovesse valutare maggiormente la propria strisciolina, essa pagherebbe a Tizio una cifra sufficientemente alta da indurlo a rimuovere l’immobile. Il diritto, in altre parole, verrebbe comunque allocato a chi lo valuta di più. Ed infatti, nella stragrande maggioranza dei casi le ipotesi che ricadrebbero nell’art. 938 non raggiungono le corti, come dimostrato dall’assenza quasi totale di giurisprudenza in merito. Caia tuttavia potrebbe odiare Tizio – un suo ex fidanzato –, rifiutando al di fuori di ogni ragionevolezza qualsiasi offerta. In un tal caso Caia potrebbe togliersi la soddisfazione di rovinare finanziariamente l’ex innamorato soltanto qualora fosse francese; la regola italiana, che attribuisce a Tizio il diritto di mantenere la costruzione, è perciò da preferirsi a quella francese dato l’enorme spreco di risorse insito nella demolizione di un immobile. Come si vede in questo caso, il criterio dell’efficienza detta una ricetta del tutto compatibile con quell’esigenza di giustizia che la dottrina francese – assai critica della giurisprudenza della Cassation – invoca per non penalizzare eccessivamente un costruttore di buona fede.
6. Principio fondamentale in materia di proprietà è che ciascun consociato sopporti i propri
costi. Soltanto così la proprietà privata si colloca in sintonia con la prescrizione costituzionale
che la vuol protetta nei limiti della propria funzione sociale
In Germania il principio costituzionale fondamentale in materia di proprietà è espresso nella locuzione «la proprietà obbliga». In Italia la medesima idea è resa dalla formula della funzione sociale contenuta nel co. 2°, art. 42 Cost. Dal punto di vista definitorio, si tratta di una notevole rottura rispetto alla retorica del modello franco-statunitense, fiorita a seguito della Rivoluzione francese. Dal punto di vista operativo, tale disposizione costituzionale non può restar priva di effetti. Per riempirla di contenuto è ancora una volta necessario riflettere sulle fondamenta economiche della proprietà privata. Sarà così che potremo renderci conto a un tempo della funzione e dei limiti dell’istituto proprietario.
Dal punto di vista della funzione, la proprietà privata si giustifica come rimedio alla cosiddetta «tragedia dei beni comuni» (tragedy of the commons). Si tratta del ben noto problema per cui, in mancanza di disciplina giuridica dell’appartenenza, tutti gli individui sono portati ineluttabilmente verso la catastrofe ingenerata dall’appropriazione selvaggia di risorse scarse (p. es. balene) non disciplinate come tali. La ragione di ciò è che ciascun individuo tenderà ad appropriarsi del maggior numero possibile di risorse, perché i benefici di tale appropriazione ricadranno interamente su di lui, mentre i costi verranno divisi fra tutti i consociati. Un esempio assai banale si ha nello sfruttamento selvaggio della foresta amazzonica, là dove i benefici economici e i costi sociali del disboscamento sono allocati in modo del tutto divaricato.
Ad un livello altrettanto ovvio si colloca la giustificazione per cui, in mancanza di disciplina giuridica, i consociati sarebbero completamente disincentivati all’investimento perché, com’è agevolmente intuibile, nessuno coltiva sapendo che i profitti del raccolto saranno incamerati da altri. Anche qui gli esempi storici a livello di catastrofi non mancano. L’organizzazione cooperativa kokhoziana non fu mai in grado di far arrivare prodotti sui mercati sovietici, perché i contadini abbandonavano gli ampi ter-reni i cui prodotti andavano conferiti in cooperativa per concentrare i propri sforzi alla coltivazione degli orticelli individuali. I prodotti di questi ultimi erano oggetto di proprietà individuali. La dottrina economica arricchisce la coppia di banalità testé riportate, concentrando la propria attenzione sulla diversità strutturale fra quei beni che devono essere oggetto di proprietà privata e quelli che viceversa non possono che essere oggetto di proprietà pubblica.
Tale riflessione è esplicitata attraverso l’esempio del faro ed è conseguenza, questa volta inevitabile, del secondo esempio testé riportato. Così come nessuno coltiva per regalare tutto il prodotto al primo che passa, altrettanto nessuno costruisce un faro allocandosene costi di costruzione e manutenzione senza poter ottenere alcun beneficio, a causa dell’impossibilità di richiedere un pedaggio ai beneficiari, cioè agli armatori delle navi che transitano al largo. Di qui la necessità dell’intervento statale causato dalla natura pubblica di tali beni.
Questi brevissimi cenni introduttivi consegnano all’interprete un triplice messaggio forte. La proprietà dei beni è allocata a individui privati a causa degli incentivi che essi possono trarre dall’appropriazione dei frutti che da essa provengono. Lavoro e investimenti vengono così stimolati, con beneficio sociale complessivo. Non sempre tuttavia l’interesse individuale serve all’interesse collettivo. La tragedia dei comuni dimostra che esso va arginato, limitato e incanalato attraverso una chiara demarcazione dei confini delle sfere individuali.
Nessun individuo può imporre alla collettività i costi delle proprie scelte. Infine, non tutti i beni sono meglio gestibili dagli individui. In determinati casi l’intervento pubblico è necessario (per es. il faro); in taluni altri è consigliabile (per es. strade, porti, ecc.). La funzione sociale della proprietà acquista contenuto in questa logica. In un’economia mista come la nostra, i beni sono da considerarsi in proprietà privata salvo espressa disposizione opposta. Ciascun assegnatario va però visto come un agente che, soddisfacendo l’interesse proprio, al contempo soddisfa quello sociale.
Massima attenzione deve esser posta a che ogni proprietà si faccia carico dei suoi costi. Il diritto non può sopportare alcuna esternalità. In determinati casi infine, nei confronti di certe tipologie di beni, sono legittime scelte pubbliche che li sottraggono in tutto o in parte al potere dei privati. Tali scelte tuttavia devono essere sorrette da adeguata motivazione economico-politica e, avendo la natura di scelte politiche, non sono sindacabili dal punto di vista tecnico se non entro limiti formali.
La proprietà privata sopporta i propri costi qualora vengano allestiti adeguati strumenti istituzionali di controllo delle esternalità. Tali strumenti possono avere natura pubblica o privata. Nel primo caso essi si dicono collettivi, e sono concretamente posti in essere dalla P.A.; nel secondo essi si dicono decentrati, e sono concretamente posti in essere da altri proprietari tramite il sistema delle corti.
Nella terminologia economica, quando una proprietà impone costi propri a una o più altre proprietà si parla di esternalità negative o diseconomie esterne. L’esempio più chiaro può rinvenirsi nelle immissioni industriali, là dove una parte consuma una risorsa scarsa (quiete, aria pura, acqua corrente…) senza sopportarne il costo. Per converso, un’esternalità può essere positiva – come per es. qualora un privato bonifichi una discarica trasformandola in un giardino, con beneficio non soltanto proprio ma anche di tutti i proprietari confinanti che godranno di un bel paesaggio senza sopportarne il costo –. O ancora, come nel caso in cui un condominio ripulisca a proprie spese le parti comuni dell’edificio: tutti gli altri condomini si vedranno rivalutato l’appartamento senza sopportarne il costo. Tanto nel caso di esternalità positive, quanto in quello di esternalità negative, si verifica uno sposta-mento di ricchezza fra individui al di fuori dei meccanismi del mercato.
Il mercato perciò fallisce nella propria funzione di efficiente allocazione delle risorse, in quanto il sistema dei prezzi non trasmette informazioni corrette. Entrambi i tipi di esternalità, di conseguenza, preoccupano gli economisti. La ragione per cui le esternalità si verificano risiede nella non completa separabilità delle sfere proprietarie, per cui molto difficilmente nel nostro mondo affollato un comportamento tenuto da un proprietario lascia del tutto indifferenti gli altri. In materia di immissioni avremo modo di affrontare più dettagliatamente il problema.
Le esternalità positive lasciano relativamente indifferente il giurista, il quale concentra la propria attenzione su quelle negative. Le esternalità negative assai sovente si sostanziano in danni o in situazioni di pericolo giuridicamente rilevanti alle quali, nel nostro diritto, possono ovviare regolamentazioni amministrative (per es. si pensi alle prescrizioni relative alle attività nucleari), o regole di diritto privato. In materia proprietaria queste ultime regole si rinvengono in larga misura, anche se non esclusivamente, nel Lib. III del Codice civile
Nella terminologia giuseconomica e nella vasta letteratura sulle scelte pubbliche, le regolamentazioni pubblicistiche, quelle cioè volte a correggere attraverso un sistemi di comandi e controlli amministrativi le attività dei consociati potenzialmente nocive dell’interesse comune, vengono considerate sistemi di scelta «collettiva». Ciò significa che si tratta di scelte collettivamente poste in essere dai consociati attraverso il circuito democratico. Esse tendono perciò a riflettere i rapporti di forza presenti all’interno di tali organismi, e si sostanziano sovente in redistribuzioni delle risorse per nulla limitate all’internalizzazione delle esternalità.
Le regole privatistiche, viceversa, vengono amministrate dalle corti, e costituiscono un sistema considerato «decentrato». Ciò significa che l’attribuzione in proprietà di taluni beni conferisce a ciascun consociato un determinato fascio di poteri nei confronti di tutti gli altri consociati. Questi poteri vengono fatti valere in Corte qualora un proprietario ritenga di essere vittima di esternalità negative. Le regole proprietarie che derivano dalla soluzione di questi conflitti non sono direttamente scelte da una volontà politica «collettiva», ma sono la risultante di una serie di decisioni indipendenti elaborate da corti nella soluzione di controversie fra individui. Di qui la locuzione scelte decentrate. La lotta alle esternalità, e non la ridistribuzione, guida le corti in quest’opera.
La contrapposizione fra scelte collettive e scelte decentrate, elaborata all’interno di una tradizione giuseconomica che ha come punto di riferimento il mondo di Common Law, sconta la semplificazione dovuta all’assenza di corti amministrative. Nel trapiantare la terminologia e la metodologia d’indagine all’interno di un sistema istituzionale reso assai più complesso dal ridotto ruolo delle corti ordinarie, occorre tener presente che la giurisprudenza amministrativa costituisce a sua volta un sistema di scelte decentrate, in quanto le regole proprietarie che ne derivano mantengono la natura di risultato incidentale alla soluzione di una controversia avente come protagonista un privato proprietario. La giurisprudenza amministrativa, in altre parole, non condivide con la regolamentazione amministrativa la natura redistributiva > (continua.).[4]
[1] inserito in Diritto&Diritti nel marzo 2004
[2] (*) Questi materiali antologici raccolti da Andrea Fusaro sono parte di capitolo del primo volume di Poteri dei privati e statuto della proprietà,casa editrice S.e.a.m, Roma ,dove si trattano gli argomenti enumerati dal circostanziato indice dell’opera
[3] Sommario:
La prospettiva dell’analisi economica ; Un metodo di studio della proprietà.L’analisi economica del diritto; Le premesse dell’analisi economica del diritto:il teorema di Coase; Diritto di proprietà e teoria economica; Costi transattivi e disciplina della proprietà:la tesi di Poster; Costi transattivi e disciplina della proprietà:la tesi di Calabresi e Melamed; La letteratura successiva; I property rights nell’analisi economica; La prospettiva rimediale; il nesso tra comparazione e analisi economica in tema di property rights; Il numero chiuso dei diritti reali tra teoria economica e property law; Le new properties nell’analisi economica .
[4] INDICE VOLUME PRIMO
Nozione e rilevanza costituzionale
PREMESSA 7
CAPITOLO PRIMO
Per una definizione della proprietà 9
1.1 La proprietà nel vocabolario giuridico 9
1.2 La prospettiva costituzionale 20
1.3 Nel quadro dei diritti dell’uomo 22
Le new properties 29
CAPITOLO SECONDO
La proprietà nei modelli stranieri e attraverso la comparazione 45
2.1 La proprietà nei modelli stranieri notevoli 45
2.1.A) Property 45
2.1.B) Proprieté 66
2.1.C) Eigentum 74
2.2 Lo ius aedificandi 79
2.3 L’espropriazione 92
2.4 Le immissioni 100
2.5 Diritti e rimedi in prospettiva comparatistica 107
2.6 Il trust 119
2.7 Trasferimento della proprietà e sistemi di pubblicità 125
2.8 Il numero chiuso dei diritti reali 140
CAPITOLO TERZO
La prospettiva dell’analisi economica 149
3.1 Un metodo di studio della proprietà. L’analisi economica del diritto 149
3.1.A) Introduzione 149
3.1.B) Le premesse dell’analisi economica del diritto:
il teorema di Coase 151
3.1.C) Diritto di proprietà e teoria economica 161
3.1.D) Costi transattivi e disciplina della proprietà:
la tesi di Posner 165
3.1.E) Costi transattivi e disciplina della proprietà:
la tesi di Calabresi e Melamed 170
3.1.F) La letteratura successiva 178
3.1.G) Alcuni ripensamenti 180
3.2 I property rights nell’analisi economica 207
3.2.A) La prospettiva rimediale 207
3.2.B) Il matrimonio tra comparazione e analisi economica 210
3.2.C) In tema di property rights 228
3.3 Il numero chiuso dei diritti reali tra teoria economica e property law 235
Le new properties nell’analisi economica 252
CAPITOLO QUARTO
La funzione sociale della proprietà 257
4.1 La proprietà nella Costituzione repubblicana del 1948.
I lavori dell’Assemblea Costituente 257
4.2 Le diverse letture dell’art. 42 Cost. 262
4.3 Le garanzie costituzionali della proprietà privata 279
4.4 La funzione sociale della proprietà. Profili storici e ideologici 291
4.5 Proprietà privata ed espropriazione 297
4.6 L’occupazione acquisitiva 304
4.7 La funzione sociale e la «socialità» nella Costituzione 318
4.8 La funzione sociale e la Costituzione materiale 320
4.9 Gli statuti della proprietà e la disciplina dei beni 331
La funzione sociale alla vigilia del nuovo millennio 340
CAPITOLO QUINTO
La proprietà e le proprietà 357
5.1 La proprietà tra diritto soggettivo e interesse legittimo 357
5.2 La proprietà e le proprietà 365
5.3 La proprietà conformata e la proprietà vincolata 369
5.4 Titolarità individuale e fruizione collettiva (beni culturali e ambientali) 381
5.5 La proprietà edilizia 386
5.5.A) Le peculiarità della proprietà edilizia 386
5.5.B) Il bene «casa» e il diritto all’abitazione 389
5.5.C) La disciplina urbanistica ed edilizia 400
5.5.D) La proprietà dei suoli urbani 409
5.6 La proprietà agraria 412
5.6.A) La proprietà agraria e la disciplina del Codice civile 412
5.6.B) La proprietà agraria nella Costituzione 415
5.6.C) La legislazione speciale del primo dopoguerra:
la riforma agraria 423
5.6.D) L’accesso alla proprietà contadina e il diritto di prelazione
a favore dei coltivatori diretti 426
5.6.E) La tipizzazione dei contratti agrari 432
5.7 La proprietà dei gruppi 437
5.8 La proprietà fiduciaria 456
5.9 La proprietà-garanzia 465
Tavola delle abbreviazioni dei periodici italiani citati 470
INDICE VOLUME SECONDO
CAPITOLO PRIMO
Dal Codice napoleonico al modello contemporaneo 7
1.1 I poteri del proprietario nella definizione di «proprietà» del codice napoleonico 7
1.2 Le definizioni di «proprietà» nei codici italiani preunitari 21
1.3 La proprietà nello statuto albertino 25
1.4 La disciplina della proprietà nel Codice civile italiano del 1865 29
1.5 Proprietà e impresa. La vicenda del conflitto tra proprietari terrieri e imprenditori di trasporti ferroviari 45
1.6 Proprietà e intervento dello Stato. Le opere pubbliche
e i lavori pubblici 55
1.7 Le trasformazioni del diritto di proprietà: (a) La proprietà come potere relativo, limitato dal diritto pubblico 60
1.8 (b) L’idea di «funzione sociale» della proprietà nelle elaborazioni del socialismo giuridico 73
1.9 © La legislazione di guerra 83
1.10 (d) La funzione sociale nei testi costituzionali. La Costituzione di Weimar 87
1.11 Verso una nuova definizione di proprietà. L’interventismo corporativo e la codificazione del 1942 95
1.12 La legislazione speciale. Proprietà agraria e proprietà edilizia 115
1.13 L’evoluzione successiva 128
CAPITOLO SECONDO
Una vicenda da concettuale: il numero chiuso dei diritti reali 149
2.1 Introduzione 149
2.2 La definizione di un dogma: la tesi di Venezian 152
2.3 Il diritto di cacciare sul fondo altrui. Uso e servitù irregolari 156
2.4 La trascrizione degli obblighi personali 171
2.5 Il principio del numero chiuso dei diritti reali sullo sfondo della crisi del modello tradizionale di proprietà 183
2.6 Convenzioni di lottizzazione, asservimenti, cessioni di cubatura 207
2.7 La vicenda dei diritti reali nella dottrina recente 239
CAPITOLO TERZO
L’oggetto del diritto di proprietà 251
3.1 La nozione di oggetto del diritto di proprietà 251
3.2 I limiti all’appropriazione 263
3.2.A) Res nullius, caccia e pesca, le energie 263
3.2.B) Lo statuto del corpo umano 268
3.2.C) L’informazione, i programmi per elaboratori 271
3.2.D) Suolo e sottosuolo 277
3.3 L’ambiente come bene 290
CAPITOLO QUARTO
I limiti temporali al diritto di proprietà 301
4.1 La proprietà temporanea 301
4.2 La multiproprietà 308
CAPITOLO QUINTO
Il contenuto dei poteri del proprietario 323
5.1 Le limitazioni nell’interesse pubblico 323
5.2 La disciplina urbanistica ed edilizia 357
5.2.A) Nozione e ambito dell’urbanistica 357
5.2.B) La facoltà edificatoria 384
5.2.C) Autonomia privata e disciplina urbanistica 394
5.3 Il potere dei privati di vincolare la destinazione d’uso dei beni 414
5.4 La legislazione vincolistica 423
5.5 Immissioni e tutela della salute 430
Tavola delle abbreviazioni dei periodici italiani citati 446
448