Le difficoltà gestionali delle società miste possono essere affrontate con il metodo della “creazione del valore”
di Dr. Fernando D’Antonio - Consulente di Amministrazione ed Organizzazione d’Impresa
1) La valutazione delle imprese nel mercato
Per un lungo periodo le scienze della economia e finanza aziendale si sono interrogate sui vari metodi per stimare o valutare le imprese commerciali; non si riscontrava infatti sufficiente l’utile o la perdita d’esercizio per dare una valutazione di una azienda di grandi dimensioni, che impiega più esercizi per la realizzazione e consegna di grandi commesse (ad esempio: oleodotti, autostrade, dighe o navi), oppure che produce e/o commercializza una gamma così ampia di prodotti (ad esempio l’industria petrolchimica) che gli effetti di una inefficienza settoriale, o di un segmento di mercato, non si concretizzano in maniera percettibile nel risultato di un esercizio.
Inoltre, nel corso del tempo, la gamma di tipologie di imprese si è ampliata, a causa dell’evoluzione dei sistemi economici, dei sistemi sociali, dei bisogni che i consumatori, ed il mercato in genere, sono andati via via esprimendo.
Alla classica impresa vetero-capitalista che persegue la tradizionale finalità del massimo profitto speculativo, si sono aggiunte le imprese private che, oltre al profitto, mostrano di perseguire anche finalità di carattere sociale, come la riduzione dei livelli di inquinamento ambientale, oppure l’innalzamento dei livelli culturali o sanitari, la tutela di patrimoni storici e artistici etc..
Tra gli scopi che un’azienda può perseguire, oltre al profitto, c’è quello della patrimonializzazione della conoscenza, oppure quello della standardizzazione tecnologica, o quello della omogeneizzazione culturale etc. che non sono valutabili contabilmente ma che sono precursori di futuri profitti di quell’azienda o delle aziende del sistema Paese a cui essa appartiene.
La problematica della valutazione delle aziende, che era già ardua in ambito contabile, si è arricchita così, di altri aspetti collegati alle finalità che l’azienda stessa persegue o che realizza anche indirettamente.
Un altro “sottoprodotto” infatti che le aziende realizzano collettivamente, negli ambiti sociali in cui operano, in via indiretta ed involontaria, e, chiaramente, sempre sussidiariamente alla presenza fattiva di istituzioni pubbliche e statuali, è quello dell’implementazione di un ordinato tessuto sociale, fatto di condivisione di orari e tempi di vita, di conoscenza diffusa di modalità e procedure organizzative e gerarchiche, come di valori comuni e di rispetto e riconoscimento reciproco tra i cittadini lavoratori. Questo “sottoprodotto” dell’attività aziendale e delle istituzioni politico-sociali, che non notiamo fino a quando non compariamo le organizzazioni sociali dei Paesi sviluppati con quelle dei Paesi del terzo mondo, viene anche definito “stabilità sociale”.
La valutazione di una impresa dovrebbe quindi tener conto anche delle finalità e degli “assets“, diretti ed indiretti, realizzati dalla stessa, ma tale impostazione sociologica risulta tecnicamente poco praticabile e poco misurabile.
Gli aziendalisti e gli esperti di finanza quindi si sono indirizzati alla individuazione di criteri che, seppur più limitati, possano dare, proprio per questo, degli elementi certi collegati a scopi verificabili per valutare le attività aziendali.
Tra gli indici di valutazione più diffusi si può citare un quoziente di redditività quale, l’indice ROI (Return on Investment), dato dal rapporto tra reddito operativo e le attività operative nette medie, che evidenzia la redditività dell’impresa riferita al complesso degli investimenti in essere, al netto degli ammortamenti, ed esprime il “sacrificio di potere d’acquisto” di azionisti e finanziatori per sostenere l’attività aziendale. Altro quoziente di redditività è il “saggio di reddito” dato dall’utile di esercizio ovvero dal reddito distribuibile (al netto quindi anche di oneri finanziari e imposte) diviso per l’ammontare dei mezzi propri medi, che evidenzia il rendimento delle quote di capitale proprio investito.
Sempre con riferimento alla redditività si è fatto strada negli ultimi anni l’indice VAE (Valore Aggiunto Economico)[1], dato dalla differenza tra il rendimento del capitale investito ed il suo costo, e che permette di valutare le decisioni di impresa in termini di valore creato o distrutto.
E’ bene sottolineare che questi indici si possono estrapolare in presenza di dati di Bilancio “certi”, e riguardano grandi imprese o imprese quotate in borsa per cui spesso i “ratios” evidenziano solo quegli aspetti sui quali si vuole fare un’analisi quale investitore, finanziatore, azionista o acquisitore dell’impresa.
In questi casi quindi la valutazione dell’impresa, viene basata non sulla produttività della stessa ma sulla sua redditività, in quanto il fine di carattere lucrativo prevale su altre considerazioni.
Ma nel sistema economico sono presenti altre categorie di aziende ed imprese che operano con finalità diverse da quelle del profitto, le cooperative, le aziende pubbliche di servizi, le non profit, le imprese a partecipazione statale, le società miste etc., che da una parte interagiscono inevitabilmente col sistema economico generale, e dall’altra pongono un problema per la determinazione, in senso lato, del loro valore.
Se infatti è complessa la valutazione di una impresa di tipo privato che ha un fine evidenziabile con un indice numerico di redditività, come si potrà valutare una azienda pubblica il cui azionista è l’Ente locale che persegue finalità pubbliche? E quale è l’indice ovvero il criterio per la valutazione di una società mista che ha sia azionisti privati che pubblici con finalità eventualmente diverse se non contrastanti ?
2) L’intervento pubblico nel mercato
Per poter proporre una risposta ai quesiti sopra espressi è necessario fare una piccola digressione sulla esistenza delle imprese pubbliche, sulle loro diversità, e in generale sull’intervento pubblico nell’economia.
Una qual sorta di intervento pubblico nell’economia è sempre stato presente, sotto forma di commesse per le grandi forniture militari, o di appalti per le grandi opere quali acquedotti e basiliche, l’erario spendeva il pubblico denaro per ottenere beni e servizi di pubblica utilità.
L’intervento pubblico di tipo keynesiano nell’economia si realizza, dagli anni ‘30, quale manovra consapevolmente attuata, per innescare lo sviluppo della domanda aggregata ed innescare un ciclo economico positivo[2].
Esso può implicare il deficit spending, ovvero l’utilizzo del deficit del bilancio statale per finanziare opere ed investimenti pubblici, allo scopo di creare o migliorare infrastrutture economiche impiegando grandi masse di lavoratori e ridistribuendo così un reddito che “riaccende il motore” dell’economia privata.
In Italia, più che in altri Paesi, l’intervento pubblico in economia prese, tra l’altro, la via della acquisizione pubblica delle imprese private fallite o in difficoltà, con la costituzione dell’IRI, alla fine degli anni ’30 e la creazione del sistema delle Partecipazioni Statali, che è stato fino a pochi anni fa un’asse portante dell’economia nazionale, risultando, come quella Keynesiana, una buona “ricetta” per superare delle crisi strutturali del sistema del libero mercato.
Tuttavia anche una buona ricetta, se abusata o male interpretata, o se in mano ad un cattivo cuoco, può risultare indigesta o venefica.
Da questo sommario riepilogo storico si può estrapolare una prima classificazione[3] delle tipologie di intervento pubblico nelle economie di libero mercato: esso può essere attuato in forma diretta, indiretta o concorrente.
E’ diretto quando l’ente pubblico interviene direttamente per produrre beni o servizi che richiedono un tale apporto di investimento economico (capitali, organizzazione e presenza sul territorio) che nessun privato o gruppo di privati potrebbe assumere quale rischio di impresa.
E’ indiretto quando l’ente pubblico si limita a creare le condizioni per lo sviluppo dell’economia dei privati, a stabilire le regole ed i controlli del mercato ed a correggere le distorsioni che si produrranno nel tempo.
E’ concorrente quando l’ente pubblico entra nel mercato producendo gli stessi beni e servizi che sono o potrebbero essere prodotti dal sistema privato, facendo così concorrenza, da posizioni di predominanza, agli altri operatori economici, deprimendo conseguentemente le opportunità di sviluppo del libero mercato e dell’imprenditoria privata.
In base a questa suddivisione[4], e posto che l’obiettivo finale dell’intervento pubblico sia quello dello sviluppo equilibrato del sistema economico[5], si può già avere una prima individuazione di quale sia un tipo di intervento pubblico da perseguire e quale da evitare.
Tali criteri sono di tipo generale ma possono dare, anche a livello dell’Ente locale, l’indicazione collaterale dello strumento operativo dell’intervento, ovvero la costituzione di una azienda municipalizzata, la concessione di un appalto, la costituzione di una società mista.
3) Le società miste
Lo strumento delle società miste, viene introdotto nel sistema economico italiano con una normativa che sicuramente ha ampliato, direttamente o indirettamente, le opportunità per l’utilizzo delle risorse pubbliche in relazione alle finalità degli amministratori locali. In questa sede tuttavia non viene trattata la corretta interpretazione legale o applicazione formale della norma, ma si tenta di individuare dei criteri atti a determinare il valore di queste imprese ovvero la capacità economica delle stesse di creare valore.
Le situazioni che si possono verificare quando l’ente pubblico costituisce ex novo, rileva delle quote o partecipa ad un ente commerciale privato, che diventa così misto, sono, a titolo esemplificativo:
a. l’Ente Pubblico interviene nel mercato per ottenere, presumibilmente, risultati di politica economica quali lo sviluppo delle opportunità di lavoro, la redistribuzione o l’incremento dei redditi e delle risorse, l’ampliamento del mercato, il sostegno di attività strategiche etc.
Nel contempo, i privati presenti nella società mista, si prefiggono di ottenere, presumibilmente, risultati di redditività del capitale investito, o ampliamenti di quote di mercato, che difficilmente sono compatibili con le finalità dell’ente pubblico.
b. l’Ente Pubblico interviene nel mercato, comportandosi come un investitore privato, per ottenere un risultato di redditività dall’investimento effettuato, con il fine ultimo di utilizzare gli eventuali “dividendi”, per ripianare un proprio deficit pregresso, o addirittura di diminuire la pressione fiscale sui contribuenti; nel contempo i privati presenti nella società mista si prefiggono di ottenere un incremento degli investimenti in beni strumentali, o del numero degli addetti, per ampliare l’organico o migliorare le proprie condizioni di lavoro, con intendimenti difficilmente compatibili con quelle che, in questo esempio, sono le finalità dell’ente pubblico.
c. Sia l’Ente Pubblico che i Privati perseguono le stesse finalità (di reddito o, ad esempio, di ampliamento della capacità produttiva): in questo caso l’Ente Pubblico utilizza indirettamente risorse dei contribuenti, a favore del consocio privato il quale si avvantaggia di una situazione di monopolio o di predominanza di mercato, rispetto ad altri operatori del settore.
Naturalmente gli esempi riportati rappresentano delle semplificazioni di scuola per evidenziare il range delle possibilità conflittuali in relazione alle diverse finalità, alla composizione della compagine sociale, alla natura dei diversi soci, ai diversi fini istituzionali o oggetti societari, che producono risultati di gestione diversi.
La gestione di una impresa in cui confluiscono tante variabili e fattori di rischio interni ed esterni, non è certamente tra le più agevoli
Per individuare un adeguato mix di condizioni che consentano di effettuare un intervento pubblico nel mercato individuato attraverso una “società mista”, è necessario preliminarmente che l’Ente Pubblico effettui, da oculato investitore, gli studi economici del settore in cui intende impiegare le risorse pubbliche; richiamando poi i principii generali dell’intervento pubblico sopra ricordati, si può sintetizzare che è opportuno promuovere la costituzione di società miste quando :
* per la produzione di quel bene o servizio gli operatori economici privati presenti nel settore e nel territorio di competenza, non abbiano adeguate dimensioni e/o capacità, per intraprendere l’attività in via autonoma;
* il bene e/o servizio da produrre risulti determinante, in termini di futuro prevedibile, per lo sviluppo complessivo del territorio, e l’Ente Pubblico non abbia sufficienti risorse per farvi fronte;
* la società mista crei reddito diffuso in termini di indotto, di cultura del lavoro e di professionalità individuale .
Sarebbe opportuno evitare la creazione di “società miste” quando :
* c’è il rischio concreto di creare condizioni monopolistiche e/o rendite parassitarie a favore di un ristretto numero di operatori economici;
* è riscontrabile che la società mista permanga o entri in concorrenza, da posizioni di dominanza, con operatori privati già esistenti o in via di costituzione sul mercato ;
* c’è qualche altra forma tecnica di intervento come appalti, concessioni, erogazione di fondi agevolativi, decontribuzioni, project financing etc., più adeguata alle condizioni generali dell’economia locale e dei limiti di spesa dell’Ente;
* l’intervento sia indirettamente finalizzato alla assunzione di personale pubblico senza le procedure concorsuali, o al licenziamento dello stesso senza le tutele sindacali.
Naturalmente i criteri individuati non hanno il crisma dell’infallibilità, restano delle indicazioni, e sono da rivisitare ed integrare, per ciascuna situazione specifica, con valutazioni di carattere politico-sociale, e senza dimenticare che la partecipazione ad una società, o la società stessa, possono avere dei limiti di durata. La guideline principale dell’intervento pubblico resta quella della prudenzialità dell’investimento, per cui, se l’Amministratore pubblico utilizza lo strumento della “società mista”, deve essere in grado di motivare tale scelta, dimostrandone l’oculatezza, dato che gestisce fondi pubblici, che derivano dall’attività impositiva ovvero dal sacrificio di tutti i singoli contribuenti e dal sacrificio collettivo della comunità la quale, se investe risorse in un settore, non può più impiegarle in un altro.
4) La misurazione dell’efficienza
Alla luce di quanto sopra appare chiaro che la gestione delle imprese miste comporta una serie di problemi di corporate governance, utilizzando un eufemismo anglosassone, ovvero di “comando reale dell’impresa”, che coinvolge non solo i programmi di sviluppo, gli investimenti o le quote di mercato, ma anche la scelta del management, i prezzi o le politiche tariffarie, le alleanze strategiche o sinergiche con altre aziende o gruppi di aziende e, non ultime, le relazioni con il mondo del credito. Ancora più problematica appare la situazione ove si consideri che il socio pubblico deve periodicamente superare le tornate elettorali per proseguire in un intervento economico che forse una diversa compagine politica provvederebbe a ridurre drasticamente o a liquidare.
Tutte queste incertezze e dialettiche amministrative difficilmente non si traducono in inefficienze gestionali, palesi o occulte, che a loro volta portano a una ridefinizione della composizione societaria oppure, il più delle volte, vengono traslate al fruitore finale del bene o servizio prodotti[6]. Il processo continua fino a quando l’accumulo di inefficienze non provoca la totale incapacità di quella azienda di creare valore, il che, equivale, in termini economici, alla distruzione di ricchezza e di risorse.
In presenza di tali vizi “congeniti” di questo strumento di intervento pubblico nel mercato, la domanda da porsi è se c’è la possibilità di far convivere le esigenze di soci azionisti con finalità diverse, evitando l’accumulo di inefficienze, continuando a “creare valore”, e se ciò è misurabile.
La capacità di creare valore economico infatti è la premessa indispensabile sia per la redditività a lungo termine ricercata dal socio privato, sia per le finalità di “politica economica” del socio Pubblico, sia per le aspettative della comunità dei contribuenti che è, in ultima analisi, la proprietaria della quota pubblica della società mista.
La risposta a questa domanda non si ritrova solo negli indici di redditività dell’impresa, che si rilevano dai prospetti finanziari e patrimoniali della società, ma soprattutto nella costruzione ed analisi del Conto Economico, dove è evidenziato il valore aggiunto ed il margine operativo lordo (M.O.L.) dell’attività: se questi due dati sono negativi, né la redditività effettiva né le finalità di carattere politico-sociale sono perseguibili; è questo quindi il terreno comune su cui devono concordare le azioni e le strategie dei diversi soci della società mista.
Questa problematica, che già si è posta nelle altre situazioni di intervento pubblico-privato nell’economia (si richiamava poc’anzi il sistema delle Partecipazioni Statali), si è spesso risolta con l’acquisizione da parte pubblica dell’intero capitale sociale, con proficui vantaggi per i privati che cedevano le loro quote, ed il finanziamento, attraverso la fiscalità generale e l’indebitamento pubblico, di realtà non solo improduttive ma destinate ad assorbire risorse collettive.
In altri casi invece il confronto competitivo con altri operatori privati del settore, oppure la presenza del socio privato[7], ha invece stimolato e costretto le società a partecipazione pubblica all’adozione di tecniche di gestione che salvaguardassero appunto la capacità dell’azienda di creare valore, dando inizio ad un “circolo virtuoso” che consente di ottenere sia i risultati di redditività sia quelli di produttività sia le ricadute politico-sociali attese.
5) Uno strumento tecnico
Fermare l’analisi di produttività al margine operativo lordo non è sufficiente tuttavia a garantire che la società stia effettivamente creando valore. Mentre infatti le grandi imprese a partecipazione statale prima richiamate quale esempio di riferimento, restavano comunque soggette alla concorrenza di altri gruppi imprenditoriali[8], le società miste che operano in contesti più ridotti risultano, una volta costituite, un monopolio o un quasi-monopolio, operante in mercato protetto, ed in cui uno dei soci, l’Ente Pubblico, è anche il referente istituzionale per la regolazione di quel settore di mercato.
In questa situazione la tentazione di rendere positivo il proprio margine operativo lordo[9] semplicemente aumentando, anche indirettamente[10], le tariffe è spesso vincente, dato che il fruitore finale di un bene o servizio di prima utilità (acqua, trasporto, energia, rimozione rifiuti etc.) non ha alternative praticabili
La tariffa assume così le caratteristiche di una tassazione indiretta di carattere recessivo (perché colpisce maggiormente i redditi più bassi), e provocherà una riduzione dei consumi del bene o servizio, nei limiti praticabili per beni di prima utilità, un aumento dell’offerta illegale di beni succedanei, un incremento di comportamenti evasivi o elusivi del “balzello”, oppure, in via meno appariscente ma più dannosa, la traslazione del maggior costo a carico di terzi.
In questa ultima circostanza infatti, in una spirale di aumenti, l’esercizio di ristorazione traslerà i propri maggiori costi per l’acqua sui propri clienti, l’albergo traslerà i maggiori costi per il riscaldamento sul prezzo della camera, il grossista di prodotti alimentari traslerà al ristoratore i propri maggiori costi per la raccolta dei rifiuti etc. etc.
Per una società mista (ma anche per altre aziende o enti pubblici) incrementare i propri ricavi con l’aumento delle tariffe, oltre che poco etico, risulta quindi un percorso di corto respiro.
L’attenzione deve essere quindi rivolta alla capacità dell’azienda di creare valore ottimizzando i propri rapporti di costi e ricavi già all’interno del proprio processo produttivo.
In questo modo sarà possibile individuare sia i propri costi effettivi interni per la produzione del bene sia il prezzo massimo applicabile di equilibrio generale per evitare o limitare gli effetti sopra descritti.
Un metodo già da anni applicato da aziende che si sono trovate in situazioni analoghe è quello del Cost Breakdown Structure (CBS) ovvero della “struttura per costi parcellizzati”.
Il concetto base di questo metodo è quello per cui, nel processo di produzione del bene o servizio, ad ogni azione individuata corrisponde un mix di costi individuati ed un risultato utile misurabile. Le fasi di questo metodo possono essere sintetizzate in:
a) Individuazione di una azione nel processo produttivo come unità minima di applicazione di risorse[11], la quale viene definita work breakdown structure (wbs), struttura di lavoro parcellizzato.
b) Ogni singola wbs viene analizzata per individuare tutte le possibili riduzioni di costi in termini di tempo, lavoro, materiali, attrezzature, rispetto agli outputs attesi.
c) Dopo il primo ciclo di processo l’analisi viene ripetuta per individuare gli scostamenti tra impieghi effettivi di risorse ed i rendimenti attesi.
d) L’analisi degli scostamenti, ovvero l’individuazione dei motivi per cui si è verificato un risultato diverso da quello atteso, dà luogo ad una rivisitazione di ogni singola wbs, per la proposta di ottimizzazione della stessa.
e) dopo l’intervento di ottimizzazione, si procede alla misurazione del valore creato dalla singola wbs nel processo produttivo generale.
f) Si analizzano le quantità di valore creato e si attuano gli aggiustamenti al processo produttivo generale, provvedendo, se necessario alla ridefinizione del processo produttivo.
g) Nella ridefinizione periodica si tiene conto anche delle variazioni derivanti da cause esterne al CBS aziendale, e si ricomincia un nuovo ciclo di rilevazioni ed analisi.
Per quanto apparentemente complessa questa metodologia, sviluppata nelle imprese che, per la competizione sul mercato hanno da tempo adottato la logica della creazione del valore in ogni fase del processo, risulta poi uno strumento agile ed efficace di governo del generale andamento aziendale, e delle decisioni strategiche.
Spesso, già nella fase analitica precedente alla individuazione delle wbs, vengono alla luce sorprendenti incongruità sui processi ma anche sulle finalità di azioni ed impieghi di risorse.
Non è raro il caso in cui gli stessi addetti eseguano operazioni ed attività senza conoscerne il motivo, o quello in cui l’utilità di una azione viene annullata da una azione seguente.
In questi casi gli analisti di processo potranno delineare una nuova sequenza delle procedure di lavoro, sia di carattere operativo che amministrativo.
Elemento caratterizzante di questo metodo è infatti la applicabilità sia ad organizzazioni di produzione di beni che ad organizzazioni che producono servizi, ed ancora ad organizzazioni che hanno al proprio interno settori di produzione e settori di servizi interni.
Non a caso si è utilizzato il termine “organizzazioni”: il metodo del CBS infatti può essere utilizzato in tutti gli enti produttivi di beni o servizi e quindi, con gli opportuni adattamenti, anche nelle aziende speciali, negli enti pubblici, nelle aziende sanitarie, e nelle realtà dove, per motivi diversi, è necessaria l’ottimizzazione delle risorse a disposizione per conseguire gli obiettivi nei limiti di spesa fissati.
E’ opportuno a questo punto chiarire che il concetto di “ottimizzazione” può includere quello di “risparmio” delle risorse, ma non coincide con esso. La facile strada dei tagli di spesa, per ottenere degli immediati risultati di diminuzione di costi risulta spesso, nel medio periodo, un rimedio peggiore del male.
Messi alle strette da un incombente deficit gli amministratori di una organizzazione produttiva possono decidere di “risparmiare” sui costi in via generale, riducendo tutte le voci di spesa. L’effetto che ne deriva è sicuramente un immediato risparmio, che però, nel ciclo medio inciderà in maniera proporzionalmente maggiore sulle parti produttive dell’organizzazione, rispetto a quelle meno produttive o saprofite.[12]
L’ottimizzazione invece richiede preliminarmente una verifica analitica dei costi, una proiezione degli indici di impieghi e ricavi, e, conseguentemente, la riduzione o anche l’incremento di spese o di allocazione di risorse, attuata o programmata in relazione agli obiettivi di miglior rendimento.
Per questo motivo, durante le fasi di applicazione su descritte, per ciascuna wbs o gruppo di wbs è prevista l’istituzione di centri di responsabilità, minima unità organizzativa aziendale, caratterizzati da:
-un unico responsabile delle attività svolte nel centro
-un insieme determinato di risorse umane, materiali e finanziarie
-una delega (ordine di lavoro o funzione) espressa e definita, per un determinato periodo di tempo.
Si intravede a questo punto come l’applicazione di questo metodo preveda una struttura matriciale di wbs e centri di responsabilità, quale linea organizzativa di base, che a sua volta viene continuamente analizzata ed ottimizzata in funzione delle variazioni delle wbs.
La continua analisi e rianalisi di questi parametri permette il continuo riassetto del processo o delle procedure di produzione, secondo che si fornisca un bene o un servizio, e l’ottimizzazione delle risorse.
Sulla scorta di una tale riorganizzazione concettuale della attività produttiva il passo seguente è quello di una adeguata rilevazione dei costi/ricavi delle singole wbs, tenendo presente che anche l’attività di rilevazione stessa deve osservare gli stessi criteri organizzativi su espressi.
I dati di carattere gestionale vengono continuamente rapportati al budget di quella wbs e confluiscono nel conto economico riclassificato.
L’organizzazione per wbs consente di individuare, il costo di trasformazione[13], per ogni fase del processo produttivo, e di emarginare la quota di costi generali attribuibile alla singola fase, nonché la fase che ha contribuito, (in senso positivo o negativo) al risultato.
Il metodo sopra accennato nei suoi elementi di base[14] non è certo la ricetta miracolosa e risolutiva della gestione delle aziende, ma solo un metodo, sicuramente efficace, per evidenziare, analizzare, fronteggiare, e porre anticipatamente rimedio alle difficoltà descritte, per lo meno dal punto di vista conomico e finanziario.
Analoghe metodologie, spesso già vengono applicate, magari in maniera artigianale, da imprenditori o amministratori attenti; naturalmente è da considerare che, in alcuni casi, le realtà produttive possono presentare problematiche di “infiltrazioni ambientali” malavitose, o di comportamenti dolosi, contro cui a nulla valgono gli asettici moduli e gli indici numerici di carattere contabile.
Tuttavia se si vuole salvaguardare il concetto stesso dell’intervento pubblico nel mercato, collegato a quello della tutela degli interessi collettivi, la strada della creazione del valore deve essere perseguita.
Le società miste (e, per estensione, anche quelle speciali o le altre forme di organizzazioni produttive pubbliche) costituiscono una modalità dell’intervento pubblico nell’economia; esse possono essere fonte di benessere diffuso della collettività (che ne è indirettamente l’azionista di maggioranza) o possono diventare delle organizzazioni saprofite del mercato in cui operano, assorbendo risorse che potrebbero essere utilizzate per altri fini, ed ingenerando per di più la sfiducia diffusa nell’intervento pubblico in economia.
Si può quindi concludere che se da una parte è compito dell’amministratore pubblico individuare, fin dal momento della costituzione, i rischi e le opportunità che si creano con una società mista, dall’altra, dall’altra è compito dell’amministratore pubblico anche quello di mantenere il consapevole governo sull’utilizzo delle risorse impiegate, sui limiti degli incrementi delle tariffe, e sul verificarsi di quei risultati attesi, al fine sia di salvaguardare le risorse pubbliche impiegate, sia di favorire lo sviluppo autonomo dei fattori della produzione locali.
Gli strumenti tecnici, come il CBS, esistono e sono validamente utilizzati in realtà similari, per le decisioni di strategia aziendale complessa, che non possono più prescindere, anche nel caso dell’intervento pubblico in economia attuato in forma diretta, da logiche di creazione di valore, e di verifica delle scelte gestionali.
Ciò non per un mero capriccio da contabile, ma per il fatto che l’intero “sistema Paese”, di cui le società miste sono parte, affronta, in una economia globalizzata, problematiche di concorrenza e competizione sconosciute fino a qualche anno fa, e che hanno evidenziato, anche crudamente, la limitatezza delle risorse disponibili, rispetto agli illimitati bisogni dell’uomo; tale raffronto a sua volta impone una oculata attribuzione delle risorse per evitarne lo sperpero, l’accaparramento o il disutilizzo.[15]
[1] Indicato anche come EVA® (Economic Value Added). L’indice EVA viene dato dalla differenza tra il Margine operativo Lordo (EBIT) meno (Capitale Investito per Costo medio del Capitale investito ).
[2] I cultori della materia comprenderanno le semplificazioni sugli argomenti trattati che, in altra sede, andrebbero meglio approfonditi.
[3] Vedi nota 2.
[4] La classificazione è esemplificativa non essendo la presente la sede di una trattazione più approfondita. Vedi nota 2.
[5] L’Italia è, tra l’altro, Membro del Fondo Monetario Internazionale, che ha, tra i principii fondanti, proprio quello del perseguimento di un equilibrato sviluppo dei sistemi economici nazionali.
[6] E’ il caso delle società miste che producono beni o servizi di pubblica utilità (trasporti, energia, assistenza etc.) le quali, operando in regime di monopolio e con contratti per adesione, possono praticare, con vari artifizi tariffari, prezzi svincolati da logiche di mercato.
[7] Anche quale finanziatore terzo, ovvero sistema bancario e gruppi di fornitori di lungo periodo.
[8] Si pensi ad esempio al confronto tra RAI e MEDIASET o tra l’ENI e le altre grandi produttrici di idrocarburi .
[9] Il M.O.L. è dato da Ricavi meno costi esterni, meno il costo del lavoro e i costi generali. In regime di monopolio, potendo aumentare i ricavi senza tema di concorrenza di altri operatori, è molto semplice mantenere il m.o.l. positivo, con l’apparente risultato di efficienza gestionale.
[10] Si pensi alle tariffe a tempo dei trasporti con le quali viene venduto un tempo/trasporto di durata fissa e predeterminata che spesso non corrisponde alle effettive esigenze dell’utente.
[11] Le risorse possono essere lavoro, materiali, attrezzature, tempo ma anche know-how, capacità organizzativa e progettuale etc.
[12] Si pensi ad esempio ad una riduzione dei costi per il condizionamento climatico dei luoghi di lavoro: i reparti più produttivi, saranno penalizzati da un ambiente meno agevole e il rendimento scemerà progressivamente mentre i reparti improduttivi o saprofiti non incrementeranno la propria resa continuando ad assorbire la propria quota di risorse.
[13] Nel costo di trasformazione sono inclusi gli stipendi, gli ammortamenti ed altri costi generali, sono esclusi gli oneri ed interessi passivi.
[14] Vedi nota 2.
[15] A titolo di esempio si può ricordare che, tra le altre cause, accaparramento e mancato o distorto utilizzo di risorse hanno prodotto il disfacimento degli imperi industriali o il crollo di economie nazionali una volta floride. Essi sono all’origine della progressiva riduzione del Welfare System in tutte le economie mondiali, con qualche eccezione dovuta proprio ad una gestione efficace.